Marco Buticchi - La nave d'oro

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La nave d'oro: краткое содержание, описание и аннотация

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Nel XIV secolo, in uno scenario che vede lo scontro fra Occidente cristiano e Oriente musulmano, Hito Humarawa, un ex samurai macchiato dal disonore e troppo amante della vita per darsi la morte, si ritrova al fianco di un mercante veneziano e gli viene affidato il compito di combattere un giovane eroe con un passato da nobile cristiano. Oggi l’anziano ammiraglio Grandi ha rinvenuto nel corso di un’immersione alcuni reperti che l’hanno indotto a pensare che proprio in quel punto fosse naufragata la nave d’oro di un imperatore romano. Forse quella scoperta è l’unica scintilla che può ridare un senso alla vita di Henry Vittard, un celebre navigatore transoceanico che da poco ha perduto la moglie.

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All’altro capo del telefono, Vittard prese diligentemente nota.

Con tono falsamente incuriosito, Grégoire chiese un’ultima delucidazione, ma senza alcun interesse reale, solo per congedare l’amico in maniera educata.

«E dimmi, Henry, che cosa spinge uno skipper a riprendere una brillante carriera interrotta? Quali relitti hai trovato?»

«Innanzitutto, non ho nessuna intenzione di riprendere la carriera. E non ho rinvenuto alcun relitto… Solo una serie di congetture…»

«Dunque, uno dei relitti potrebbe essere di epoca medievale, visti i caratteri con cui era scritta la parola Muqatil, il Guerriero… Ma l’altro… Raccontami dell’altro…»

«L’altro potrebbe essere di età imperiale; però, torno a ripeterti, sono soltanto congetture.»

«Imperiale?» si insospettì Funet, nel cui cervello stava suonando un campanello d’allarme. «E hai trovato qualcosa? A quale periodo di Roma imperiale ti riferisci? Dove sei adesso?» Grégoire era diventato improvvisamente attento e curioso.

«Nessun indizio concreto», mentì Henry, svicolando da quella serie incalzante di domande con monosillabi alquanto vaghi. «Solo supposizioni. L’epoca potrebbe essere quella neroniana. Siamo nel sud dell’Italia.»

«Ah, Nerone!» esclamò Funet, pentendosi, a questo punto, di aver indirizzato il suo compagno di studi verso un’altra fonte di informazioni.

«Perché hai detto Nerone come se dalle tue parti non si parlasse d’altro?»

«No… Volevo soltanto ribadire che l’imperatore romano sta vivendo un momento di grande popolarità: sembra che siano in molti quelli che stanno riscoprendo le gesta di Nerone…» balbettò quasi Funet e aggiunse: «Comunque, sto ricontrollando adesso i miei impegni… Se vuoi, il tempo per un vecchio amico lo posso ritagliare da qualche parte…»

«Ti ringrazio, Grégoire. Lo terrò presente, ma cercherò di disturbarti il meno possibile.»

Grandi era rimasto in silenzio per tutta la durata della telefonata. Osservò Henry chiudere la comunicazione sulla tastiera del cellulare.

«Grégoire Funet non era sincero. Non possiamo fidarci di lui. Sembrava sulle spine… E poi quando ho nominato Nerone è trasalito…» riferì Vittard all’ammiraglio.

Grégoire Funet si alzò dalla sedia. Indossò uno spolverino Burberry e uscì dal palazzo che ospitava il suo ufficio. La sua mente continuava a macinare: le coincidenze… le coincidenze. Era soltanto un caso o un legame univa quelle due persone che, dagli opposti angoli del pianeta e nel volgere di pochi minuti, gli avevano chiesto notizie sul medesimo imperatore romano?

In ogni caso riferire una coincidenza come quella poteva soltanto dare al suo cliente l’impressione di grande efficienza da parte sua. Si infilò in una cabina e compose un numero strettamente riservato. Il telefono di una lussuosa abitazione di Tokyo prese a squillare.

Alessandria, anno di Roma 798 (45 d.C.)

La necropoli si estendeva oltre la porta occidentale della città di Alessandria. Le dimensioni di quella che tutti chiamavano «la città sotterranea dei morti» superavano ormai di gran lunga quelle della città dei vivi.

La notte era calata da tempo. Lisicrate, guidato da un seguace di Simon Mago, si aggirava tra le cappelle funerarie: piccole costruzioni, spesso a forma di tempio, dalle quali si aveva accesso ai sepolcri sottoterra e nelle quali i parenti si radunavano per raccomandare i propri defunti agli dei.

Giunto in prossimità di un edificio poco più grande degli altri, l’accompagnatore si arrestò.

«Sei davvero certo di voler diventare un discepolo di Simone di Samaria?» chiese il seguace al giovane greco.

«Ne sono sempre più convinto», asserì Lisicrate.

«Seguimi», riprese l’altro, chinandosi per entrare nell’angusta apertura del tempio funerario.

I bracieri, all’interno, illuminavano la scena. Una trentina di adepti reggevano delle piccole torce. Al centro, nei pressi di un’ara, c’era un uomo di statura più elevata del normale, con le mani tese verso un punto indefinito e gli occhi chiusi. Il corpo dell’uomo vibrava come una corda di cetra.

Lisicrate osservò con attenzione quella figura, fino a che Simone di Samaria non aprì gli occhi, puntandoli dritti, tra i bagliori del fuoco, in quelli di Lisicrate.

Il giovane greco sentì un brivido salirgli lungo la schiena e, nello stesso tempo, percepì una forza misteriosa che lo attirava verso Simone. Si concentrò a sua volta: l’intensità magnetica di quello sguardo sembrava quasi avere il sopravvento sulla sua volontà, poi, d’improvviso, quella sorta di duello a distanza volse a favore di Lisicrate e, come per incanto, il peso che gravava sul giovane parve scomparire.

«Sei tu il greco?» Simone pronunciò quelle parole con una voce resa ancor più grave dal suo risuonare tra le volte.

«Sì, Simone. Io sono Lisicrate di Atene e comando una nave oneraria», mentì il ragazzo, sostenendo lo sguardo indagatore del mago.

«Che cosa ti ha spinto a cercarmi?»

«Da quando ho sentito parlare dei prodigi che sai compiere, ho provato una forte attrazione per la tua persona, e prepotente è nato in me il desiderio di conoscerti e di seguire la tua dottrina.»

«Che cosa sai della mia dottrina, Lisicrate?»

«Sono qui per apprenderla, non per enunciarla dinanzi a te. Credo comunque che gli angeli abbiano creato l’universo e che le anime passino da un corpo all’altro, dopo la morte. Credo che l’uomo non possa decidere da sé la bontà delle sue azioni. Mi inchino dinanzi a te, Simone, dio legislatore dei giudei.» Così dicendo, Lisicrate si inginocchiò.

«Vedo che sei dotato di una buona dose di umiltà e di una conoscenza altrettanto vasta. Dovrai superare alcune prove, prima di essere accolto nella cerchia dei miei seguaci. Le spie sono ovunque e presto ogni religione diversa da quella di Roma verrà perseguitata. Sono costretto a non fidarmi di nessuno.»

«Capisco e condivido la tua diffidenza, Simone, e sono pronto ad affrontare qualsiasi prova, pur di avere il privilegio di apprendere.»

In quel momento si udì un gran trambusto. I due uomini che presidiavano l’esterno della cappella funeraria entrarono, conducendo una donna in preda all’agitazione che stringeva tra le braccia un bambino di pochi anni, pallido e sofferente.

«Ti scongiuro, Simone, salvalo! Salva mio figlio Moses, tu puoi farlo. È stato assalito da un serpente e il veleno lo sta uccidendo.» Le ultime parole della poveretta si persero tra singhiozzi e urla di disperazione, mentre gettava in terra il serpente che, prima di venire ucciso, aveva attaccato suo figlio.

Simone si avvicinò alla donna, distese le braccia e sollevò il bambino, indietreggiò di alcuni passi e adagiò il piccolo ferito sull’altare. Allargò quindi le mani e recitò la formula che i maghi dell’Egitto sostenevano facesse scomparire ogni febbre che asciugava la vita.

« Haray! Haray! O o o Chak Arò Nuf. »

Poi il mago si concentrò di nuovo, il corpo prese a tremare, gli occhi rotearono all’interno dell’orbita, lasciando in vista soltanto il bianco del bulbo.

«Horus, figlio di Iside e Osiride, che sei stato cresciuto tra le paludi. Horus, dio dalla testa di falco», cantilenò Simon Mago con voce ancor più cavernosa, «chiedo il tuo aiuto per salvare dalla morte il piccolo Moses.»

Lisicrate, sacerdote di Osiride, aveva sentito parlare del rituale grazie al quale si diceva che i maghi sconfiggessero il veleno. Era un’antica formula di invocazione al giovane Horus, figlio di Iside e Osiride, che sarebbe penetrato, identificandosi in lui, nel corpo del piccolo Moses.

«Indietreggia, veleno letale!» continuò Simone allungando le braccia in modo plateale sopra il bambino. La tunica dai colori accesi del mago emise intensi bagliori alla luce delle torce.

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