«Quali sarebbero queste voci, mio generale?»
«Dicono che tu conosca da vicino i wako che infestano questi mari. C’è anche chi si azzarda a indicarti come il feroce capo dei pirati: i rarissimi testimoni parlano di un esperto combattente con il volto celato da una maschera da samurai in legno di gelso…» Ashikaga squadrò Hito con un’espressione tra il compiaciuto e l’indagatorio, poi riprese: «Ricorda che, qualora queste voci dovessero mostrarsi fondate, io non potrò aiutarti, né sarò in grado di difenderti dinanzi alle accuse».
Hito Humarawa si accorse in quel momento che la soddisfazione delle necessità finanziarie del suo protettore era soltanto un alibi: lui non combatteva per il suo signore, combatteva per se stesso. E poco gli importavano i seri pericoli che avrebbe corso la sua vita se fosse stato scoperto. La sua stessa esistenza non avrebbe avuto senso senza l’esaltazione della lotta, del combattimento che doveva svolgersi secondo le ferree regole d’onore dettate dal bushido. L’impugnatura della katana tra le dita gli era necessaria quanto l’aria che respirava. Certo, ad Ashikaga doveva la carica di daimyo, e, di contro, lui stesso elargiva periodicamente dei veri e propri tesori al Grande Generale: i frutti delle razzie di cui Humarawa non sapeva che farsene.
«… Ma non sono certo venuto qui per raccontarti una delle mille voci che circolano nella pettegola cerchia dello shogun Hojo», proseguì Ashikaga, senza più avere l’aria accusatoria di pochi istanti prima e assumendo un tono amichevole. «Credo sia tempo di andare a parlare con l’imperatore Go-Daigo. L’ora della fine del suo esilio sull’isola di Oki è ormai prossima.»
Tabarqa, 1331
Una brezza calda spirava dal deserto, più a sud, e la città sembrava soffocare, oppressa dalla cappa che avvolgeva uomini e cose. Anche il moto del mare sembrava essersi fermato, catturato dalla bonaccia e dall’arsura.
La notte era scesa da poco e soltanto un barlume violetto rischiarava ancora l’orizzonte. Poco lontano, tra i fuochi del bivacco, si perdevano a vista d’occhio le tende degli assediami. Forse proprio per cercare ristoro, il Muqatil si trovava lungo il camminamento che sovrastava la cinta, quando Ibrahim lo raggiunse.
«Avevi ragione, emiro», disse l’uomo inviato oltre le linee nemiche qualche giorno prima. «Le razzie che i cristiani compiono localmente non sono sufficienti ad alimentare le migliaia di soldati che assediano Tabarqa. Due navi fanno la spola, credo con la Sicilia o con altre coste amiche, approvvigionando gli infedeli che ci assediano. I convogli sbarcano vettovagliamenti con cadenza quindicinale.»
«Era quello che volevo sapere, Ibrahim», annuì il Muqatil, mentre ancora il suo sguardo si perdeva sul campo nemico e la sua mente elaborava un piano secondo il quale gli assalitori sarebbero rimasti senza sussistenza.
Erano trascorsi soltanto tre giorni da quella sera, e gli attacchi degli infedeli si erano intensificati. Facendo un rapido calcolo, il Muqatil si convinse che il cunicolo che gli assedianti stavano scavando fosse ormai giunto in prossimità delle mura meridionali. Tra poco avrebbe potuto osservare, impotente, i fasci di legna e combustibile che venivano introdotti nella galleria e poi l’emiro avrebbe visto il fumo denso uscire dal cunicolo, non appena gli infedeli avessero appiccato il fuoco sotterraneo. Lo scopo era quello di far crollare la cinta, logorando le fondamenta con il calore. In ogni caso, si rendeva conto che la città di Tabarqa non avrebbe potuto resistere ancora per molto tempo, incalzata dal lancio di proiettili di fuoco e assalti all’arma bianca. Il Muqatil raccolse i suoi più fedeli collaboratori, nel corso di uno dei sempre più rari momenti di tregua che gli assedianti concedevano loro.
«Gli approvvigionamenti agli infedeli», comunicò il giovane emiro ai suoi luogotenenti, «vengono recapitati da due navi che raggiungono le nostre coste ogni quindici giorni. Per noi sarebbe sufficiente interrompere questo flusso, non facendo arrivare i carichi anche solo per una volta, per condizionare seriamente le capacità del nemico. Un esercito di affamati, per quanto numeroso, non è più un esercito.»
«E chi riuscirà, mio signore, a fermare i rifornimenti alle truppe che ci assediano?» chiese uno dei vecchi consiglieri. «Fatta eccezione per tuo nonno Ibn ben Mostoufi, che Dio l’abbia in gloria, ben pochi di noi hanno dimestichezza con i combattimenti in mare.»
«Sarò io a guidare la spedizione», spiegò il Muqatil senza esitare. «La principale difficoltà sta nel riuscire a far salpare almeno due delle nostre navi dal porto assediato. La caccia a due imbarcazioni da trasporto non è certo un’impresa che mi intimorisca.»
«Dio grande e misericordioso guidi il coraggio del nostro valoroso signore!» esclamò con enfasi uno dei presenti. Nessuno fece caso al fatto che quella frase era stata pronunciata da Ibrahim, il traditore.
Tokyo, ottobre 2001
Il bancone della reception, nell’atrio del grattacielo sede della Water Enterprise, era in mogano massiccio. Dietro il piano di legno lucido operavano tre ragazze orientali, prodighe di cortesie e indicazioni nei confronti di chi domandava informazioni.
Kuniko Sagashi sorrise all’anziano signore che chiedeva di conferire con uno dei tremilaottocento impiegati che lavoravano nel grattacielo. Accanto al bancone si trovavano due guardie armate in divisa, altre due sostavano nei pressi della grande porta a vetri dell’ingresso. Ma non erano quelle a impensierire Kuniko: all’interno dello stabile lavoravano un centinaio di uomini addetti alla sicurezza, e un sofisticato sistema televisivo a circuito chiuso monitorava quasi ogni angolo dei centomila metri quadrati di superficie calpestabile. Non che, nella sede della compagnia, si nutrissero particolari timori di attentati o rapine: il sistema di sicurezza era uno dei mille stratagemmi che Yasuo Maru utilizzava per tenere sotto controllo ogni suo dipendente. Si diceva che il capo degli uomini della vigilanza stilasse un rapporto settimanale sullo stato di servizio dei lavoratori, segnalando direttamente al Signore delle Acque i meriti, ma più spesso i demeriti, del personale.
Quasi al centro della hall si trovava una grande fontana in marmo, evidentemente molto antica. Una targhetta in ottone spiegava che la meravigliosa scultura era parte del carico di una nave oneraria romana, naufragata lungo le coste italiane, e recuperata grazie all’interessamento — finanziario e operativo — della Water Enterprise. In segno di riconoscenza nei confronti della multinazionale, le autorità italiane le avevano fatto dono di quel prezioso manufatto.
Il reperto, insieme ad altre opere legalmente acquisite, era catalogato tra gli oggetti della collezione ufficiale del Signore delle Acque. Una collezione di tutto rispetto, anche se minima, paragonata a quella non ufficiale.
Yasuo Maru agì sul comando segreto. Una sezione della libreria si sollevò verso l’alto, come il portellone ad apertura elettrica di una comune autorimessa, mettendo in mostra una porta in acciaio. Dopo aver digitato il codice su una tastiera, Yasuo entrò nel piccolo ascensore blindato che percorreva un solo piano: lo spazio tra l’appartamento del Signore delle Acque e quella che lui stesso definiva «la cassaforte di famiglia».
Una volta raggiunto il pianerottolo, la porta dinanzi a Maru si aprì automaticamente.
La sala sembrava quella di un museo: ovunque erano disseminati pezzi di inestimabile valore, illuminati alla perfezione da un sapiente gioco di luci.
Il Signore delle Acque rimase per alcuni istanti in silenzio. Quello spettacolo era il solo in grado di procurargli uno stato di eccitazione ineguagliabile. Accarezzò le statue, gli oggetti antichi e i quadri. Gran parte di quelle opere era inserita nei cataloghi dei più famosi musei del mondo.
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