Derrick Erma guardò i due interlocutori negli occhi, prima di riprendere il discorso.
Bernstein vestiva un abito da grandi magazzini, gli eterni occhiali in tartaruga poggiati sul naso aquilino. Il suo fisico e le sue sembianze da anonimo commesso non lasciavano immaginare che quell’uomo all’apparenza insignificante fosse in realtà il custode dei segreti del Mossad. Il capitano Bernstein, infatti, era il responsabile della rete dei collegamenti e dell’archivio, la famosa «Sezione 8200»: il dipartimento custode dell’infinità di notizie e dossier che avevano reso proverbiale l’efficienza dell’intelligence del Mossad.
Il maggiore Milano era un agente operativo attento e capace. Sapeva coniugare ottimamente doti investigative e d’azione. Aveva spalle larghe e occhi scuri, penetranti. Nonostante fosse poco più che trentenne, apparteneva al Mossad da diverso tempo. I suoi nonni avevano lasciato l’Italia subito dopo la guerra ed erano stati tra i primi coloni del nuovo Stato di Israele, dove Milano era nato. Bruno Milano aveva ricoperto numerosi incarichi all’estero, entrando a far parte anche della ristretta cerchia di agenti che gli stessi colleghi chiamavano «gli assassini»: uomini incaricati di reprimere in maniera drastica e irreversibile i nemici di Israele, ovunque questi si trovassero.
«Da lei, capitano Bernstein», continuò Erma, «voglio ricevere qualsiasi notizia riguardi Yasuo Maru. Sfinisca pure i suoi motori di ricerca e trovi il modo per controllare le comunicazioni del nostro amico giapponese. Anche se in qualche modo riusciremo a tirare fuori il nostro governo dagli impegni contrattuali assunti con la Water Enterprise, credo che molto presto sentiremo di nuovo parlare di questa compagnia e del suo misterioso proprietario.
«Lei invece, maggiore Milano, sarà comandato presso la nostra ambasciata a Tokyo come responsabile dell’ufficio relazioni economiche. Il suo compito effettivo sarà quello di fornire ogni aiuto e collegamento necessario al nostro agente che sta alle calcagna di Yasuo Maru. Sarà contattato dallo stesso agente che utilizzerà il suo nome in codice: Bushido.»
Mar Mediterraneo, ottobre 2001
Un vento fresco di tramontana spingeva al lasco il C’est Dommage nel suo viaggio verso sud. I trentatré metri del catamarano filavano alla ragguardevole velocità di quindici nodi. Un sole ancora caldo illuminava il volto di Henry Vittard, mentre le sue mani tenevano il timone di sopravento, assecondando con piccole rotazioni della ruota le resistenze che lo scafo incontrava nel mare increspato.
L’ammiraglio Guglielmo Grandi stava seduto nel pozzetto, poco distante dallo skipper, e osservava con quanta maestria Henry riuscisse a pilotare quel bolide costruito in leghe leggere e materiali d’avanguardia. L’anziano navigatore era intento alla regolazione della scotta del fiocco, lascando o cazzando di volta in volta la vela, secondo l’intensità delle raffiche. Accanto a lui stava seduto il giovane Akir, il marinaio di colore, unico compagno di Henry nel corso delle loro crociere. Era incredibile che un’imbarcazione di quelle dimensioni fosse stata progettata per essere governata da pochi uomini: tre persone dotate di una certa pratica sarebbero state sufficienti a portare il C’est Dommage fino in capo al mondo, e l’ammiraglio Grandi si stava rivelando un perfetto velista anche agli occhi esigenti ed esperti di Vittard.
«Sfido un motoscafo d’altura a starci dietro», disse Grandi con un sorriso soddisfatto sul volto.
«Akir, prendi tu il timone. L’ammiraglio e io dobbiamo scendere nella sala carteggio e fare il punto della rotta.»
La sala carteggio e strumentazioni si trovava nell’estremità poppiera del galleggiante di tribordo: era un piccolo locale capace di contenere un tavolo per consultare le carte nautiche e, fissata alla paratia, ogni più moderna strumentazione per determinare la rotta e il punto nave.
Vittard indicò il sistema satellitare GPS, mediante il quale era in grado di conoscere la posizione del C’est Dommage in qualsiasi istante, con una tolleranza di pochi metri. Ingrandendo la videata dello schermo del computer apparve la costa siciliana. Un punto rosso lampeggiante indicava la posizione del catamarano.
«Mancano circa cento miglia alla nostra destinazione, ammiraglio», riferì Henry. «Se manterremo questa velocità riusciremo a raggiungere le isole Egadi nel corso della notte, e domattina potremo effettuare la prima immersione.»
«Speriamo di essere fortunati, anche se, come le ho detto, il materiale che lei ha visto mi è costato mesi e mesi di immersioni. Nella maggior parte dei casi riemergevo a mani vuote. Mi auguro soltanto che lei non si scoraggi, Henry…»
«Sono abituato alle sfide e ho anche conosciuto il sapore amaro dell’insuccesso, ammiraglio. Non mi faccio illusioni… Anche se la nave d’oro…»
«Già… la nave d’oro…» ripeté Grandi meditabondo, mentre i suoi occhi si fissavano sulla scia del C’est Dommage in planata.
Mar del Giappone, 1331
Alessandro Crespi, intraprendente mercante di Venezia, stava tremando come una foglia. Il wako lo aveva condotto dinanzi al suo capo, mentre gli altri pirati assiepati sul ponte della nave catturata si aprivano come ali di un gabbiano al loro passaggio.
L’uomo che Crespi aveva davanti non era alto, ma l’armatura di lamelle di metallo lasciava immaginare una corporatura massiccia e abituata alla lotta. Lo stesso mercante aveva avuto modo di osservare con quanta maestria il comandante dei corsari maneggiasse la spada: con un solo colpo aveva reciso di netto la testa del capitano della nave sulla quale era imbarcato il suo carico. Gli occhi di Hito Humarawa erano immobili, puntati sulle pupille del veneziano. Aveva tolto la maschera da combattimento non appena anche l’ultimo dei membri dell’equipaggio del mercantile era stato trucidato. L’espressione del suo viso non incuteva minor terrore dei lineamenti della divinità infernale incisi nella maschera di legno di gelso.
«Come hai fatto a sopravvivere?» chiese il samurai con voce ferma.
«Mi sono nascosto in una di quelle ceste», rispose Crespi balbettando in giapponese.
«Questo non ti servirà ad avere salva la vita, straniero.» Le mani di Humarawa strinsero l’elsa della katana che recava al fianco.
«Aspetta, mio signore, te ne prego. Sono convinto di esserti più utile da vivo che da morto», supplicò il veneziano, giungendo le mani dinanzi al petto.
«E quali tue doti o conoscenze sarebbero così importanti da impedirmi di ucciderti?»
«Sono ricco… Molto ricco… Potrei ordinare di pagare un consistente riscatto…»
Gli uomini sul ponte risero in maniera chiassosa e sguaiata, mentre Humarawa, insensibile alla proposta, sguainava la spada.
«Conosco le rotte delle navi da carico cinesi. Saprei distinguerle da dieci miglia di distanza e so a quale genere di trasporto ciascuna viene adibita.»
Humarawa si fermò un istante a pensare. Le informazioni che il veneziano era in grado di offrire potevano essere di grande utilità per la sua flotta di wako. Rinfoderò la katana e disse: «Voglio metterti alla prova, straniero. Voglio avere certezza del tuo valore e concederti una possibilità di salvezza. Se riuscirai a battere Wu non ti giustizierò… almeno per adesso».
Ancora una volta l’equipaggio di pirati si esibì in scene di minacciosa ilarità. Quando Wu gli si parò davanti, Alessandro Crespi comprese il motivo di quel comportamento.
Wu era un wako di origine cinese alto come un albero e grasso come un bue. Le sue mani sembravano magli di ferro. Sul volto aveva dipinta una follia omicida, mentre con passi lenti e studiati si avvicinava alla preda, facendo sobbalzare il grasso che gli circondava il ventre.
Читать дальше