Marco Buticchi - La nave d'oro

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La nave d'oro: краткое содержание, описание и аннотация

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Nel XIV secolo, in uno scenario che vede lo scontro fra Occidente cristiano e Oriente musulmano, Hito Humarawa, un ex samurai macchiato dal disonore e troppo amante della vita per darsi la morte, si ritrova al fianco di un mercante veneziano e gli viene affidato il compito di combattere un giovane eroe con un passato da nobile cristiano. Oggi l’anziano ammiraglio Grandi ha rinvenuto nel corso di un’immersione alcuni reperti che l’hanno indotto a pensare che proprio in quel punto fosse naufragata la nave d’oro di un imperatore romano. Forse quella scoperta è l’unica scintilla che può ridare un senso alla vita di Henry Vittard, un celebre navigatore transoceanico che da poco ha perduto la moglie.

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Alessandro Crespi aveva notato, dal suo nascondiglio, la foga con cui uno dei wako combatteva: nessuno pareva potergli resistere. Maneggiava la spada con grande esperienza e rapidità, muovendosi con mosse studiate. Sul volto portava una maschera in legno di gelso che raffigurava una divinità dall’aspetto terrificante. Ogni fendente di quel wako era capace di provocare ferite mortali. E adesso il medesimo pirata stava parlando ai prigionieri.

«Chi tra di voi è il più alto in grado?» chiese quello che doveva essere il capo della spedizione corsara.

Il comandante si alzò in piedi e fece due passi avanti. Era ferito a una spalla e con la mano si tamponava le abbondanti perdite di sangue.

«Io sono Hong Li, il comandante di questa nave.»

«Molto bene, comandante», disse il capo dei pirati, «vi siete battuti con grande onore e per questo meritate un premio.»

La spada dell’assalitore sibilò nell’aria, mentre il grido di battaglia usciva dalla sua bocca. La testa del comandante rotolò sul ponte con un rumore sordo.

«Ecco la ricompensa per il vostro onore: morirete senza quasi provare dolore.»

Come se quello fosse un segnale, i corsari si lanciarono urlando sui superstiti disarmati. Le sciabole calavano inesorabili, si stagliavano contro il cielo terso imbrattate di sangue per poi colpire di nuovo. Alessandro Crespi era troppo terrorizzato per provare compassione o sdegno per la strage che si stava compiendo.

Quando anche l’ultimo dei corpi senza vita fu gettato in mare, i pirati invasero la stiva, trasportando sul ponte gran parte del cospicuo bottino. C’erano oggetti d’oro e d’argento, giade finemente intagliate, stoffe con ricami d’oro e pietre preziose.

Il loro capo sembrava soddisfatto dall’entità del carico. «Di’ pure ai tuoi uomini», ordinò al wako che gli stava vicino e che si comportava come il suo diretto sottoposto, «di fare festa e attingere alle riserve di sakè del mercantile. Domattina caricheremo il bottino sulle nostre navi e faremo calare a picco questo legno ormai inutile.»

Dal suo nascondiglio, il mercante veneziano riuscì a scorgere i pirati che si abbandonavano a danze e lazzi, avvolti nelle preziose stoffe che lui aveva acquistato a peso d’oro. Li vide trangugiare bottiglie di liquore di riso fino al momento in cui non si accasciavano sul ponte.

Due dei wako si sedettero a poca distanza dalla cesta.

«Quanto pensi ci darà il nostro signore per questo carico?» disse uno dei due.

«Il bottino è molto ricco, stavolta. La nostra parte sarà almeno di un lingotto d’oro della tesoreria shogunale…» rispose il secondo.

«Già… E pensa se lo shogun sapesse che uno dei suoi fedeli daimyo è il nostro capo. Il più spietato e valoroso di tutti i wako del mar del Giappone.»

Alessandro Crespi adesso aveva capito il motivo della ferocia con cui i pirati avevano giustiziato ogni pericoloso testimone. Comprese che, se lo avessero scoperto, non avrebbe avuto salva la vita per nulla al mondo. L’uomo che guidava i wako era il governatore di una prefettura, una delle più alte cariche del Giappone, dopo l’imperatore e lo shogun. Aveva sentito spesso parlare di corsari che, per non subire noie, cedevano al daimyo locale consistenti fette di bottino, ma quello che aveva appena ascoltato superava ogni immaginazione.

Il capo dei pirati si portò al centro del ponte. Gli uomini, quelli che non erano troppo ubriachi per farlo, si disposero attorno a Hito Humarawa, il daimyo della prefettura di Shimane.

«Uomini», disse Humarawa, «questa nave era carica d’oro, argento e oggetti preziosi. A ognuno di voi spetteranno due lingotti d’oro per la vostra parte.»

Un urlo di gioia si levò alto, ma, con un solo gesto della mano, Hito Humarawa ottenne di nuovo il silenzio.

«Resta inteso che nessuno di voi, nemmeno sotto tortura, dovrà mai rivelare la mia identità.»

«Siamo i tuoi uomini, siamo pronti a sacrificare la vita per te!» gridarono i pirati a una sola voce.

Dopo aver arringato i suoi, Humarawa si allontanò, mentre uno dei wako si portò di fronte alla cesta. In preda all’ebbrezza provocata dall’alcol, sguainò la sciabola e cominciò a menare fendenti, mimando un improbabile duello con il manufatto di vimini.

Alessandro Crespi emerse tremante dal suo nascondiglio solo un istante prima che il pirata si esibisse in un affondo.

«Ma guarda che bel coniglietto bianco. Credo che il mio signore proverà un grande piacere a staccarti la pelle dai muscoli, mentre sei ancora vivo.» Così dicendo, il wako gli premette la sciabola alla gola e lo condusse verso gli alloggi di poppa.

Tabarqa, 1331

Un sibilo sinistro fendette l’aria sopra le loro teste. Il primo proiettile di catapulta s’infranse al centro di una via, riversando il suo contenuto di fuoco per diversi metri attorno al punto d’impatto. Il Muqatil osservò le fiamme lambire le pareti di una casa di legno, prima che le donne accorressero per domare l’incendio. Fuori delle mura l’urlo assordante degli assalitori salutò quel primo colpo andato a segno.

Le manovre degli infedeli erano state di una lentezza esasperante: sembrava quasi che gli attaccanti volessero fiaccare gli assediati esibendo la propria supremazia. Le macchine da guerra vennero messe in batteria e montate giorno dopo giorno sotto gli occhi attenti del Muqatil e dei suoi. Un solo particolare avrebbe potuto rivelare al giovane emiro il punto debole del nemico e per questo non volle perdere nessuna delle fasi che precedevano lo scontro.

Poi l’intera forza assediante prese posizione dietro le catapulte. Un inquietante silenzio scese su entrambi gli schieramenti. Forse erano soltanto le preghiere che gli uomini stavano recitando col pensiero a far calare quella cappa irreale sul campo in cui, entro pochi istanti, si sarebbe scatenata una lunga e cruenta battaglia. In silenzio, ogni guerriero domandava al proprio Dio di aiutarlo a vincere la paura. Chiedeva di poter riabbracciare la moglie e i figli lontani o di non vedere distrutta la propria casa e la propria esistenza, di non dover subire l’onta della sconfitta. Pregava di poter trovare il coraggio di correre contro la morte per aver salva la vita. Molti di loro, però, sarebbero rimasti per sempre su quel campo di battaglia.

«Guarda, Muqatil, stanno preparando la torre.» Ibrahim, l’uomo che aveva parlato, si era rivolto all’emiro con rispetto, ma la sua voce lasciava trasparire ansia e paura.

Alcuni infedeli si affaccendavano attorno alla costruzione in legno utilizzata per raggiungere la stessa altezza dei bastioni e, attraverso un ponte mobile, consentire a un plotone di assalitori di combattere al medesimo livello degli uomini asserragliati sulle mura.

Il silenzio durò ancora pochi istanti, poi i tonfi secchi dei pali delle catapulte riempirono l’aria e una pioggia di fuoco si riversò sulla città assediata.

Il Muqatil restava sui bastioni, quasi incurante dei proiettili, e osservava il nemico. Lontano, in prossimità del campo cristiano, un convoglio si stava avvicinando alle tende. Di certo trasportava le vettovaglie necessarie alla sopravvivenza del contingente di oltre cinquemila uomini.

Il giovane emiro assunse un’espressione soddisfatta: «Vi faremo patire le stesse sofferenze che voi fareste patire a noi. Ibrahim» — si rivolse al guerriero al suo fianco —, «non appena caleranno le tenebre, utilizzerai il passaggio segreto e oltrepasserai le linee nemiche. Devi riferirmi tutto quello che riesci a sapere sui rifornimenti di viveri destinati agli infedeli».

Era notte quando Ibrahim varcò la pesante porta che conduceva all’imboccatura del passaggio segreto. Attraverso l’angusto cunicolo, largo appena per far passare una sola persona alla volta, l’emissario dell’emiro avrebbe potuto raggiungere facilmente la costa e, in alcuni giorni, portare a termine la missione che gli era stata affidata.

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