Isole Egadi, ottobre 2001
La pressione che la maschera aveva esercitato sul volto dell’ammiraglio Grandi nel corso dell’immersione gli aveva disegnato un’ellisse violacea attorno agli occhi e sotto il naso. La sua evidente emozione non dipendeva certo dall’ebbrezza per la profondità. Grandi abbassò la cerniera della muta. Soltanto in quel momento Henry Vittard si rese conto di un rigonfiamento sotto l’indumento subacqueo, quasi all’altezza del petto dell’ammiraglio.
La testa di lupo apparve tra le mani di Grandi, sfavillante nel bagliore dell’oro illuminato da un sole mediterraneo ancora caldo.
Il reperto mostrava il logorio dell’erosione, e strati di fango secolari avevano occupato gli spazi tracciati dalla mirabile maestria di un antico incisore. Il fondale sabbioso nel quale era rimasta immersa per secoli, prima che il metal detector dell’ammiraglio la individuasse, aveva contribuito comunque a preservare la scultura dall’attacco degli elementi ossidanti e corrosivi. La forma a disco nella quale era scolpita la testa di lupo aveva le dimensioni di un piattino da caffè e l’intero manufatto, una volta ripulito, sarebbe dovuto pesare non meno di duecento grammi.
«Un lupo», esclamò Vittard, girando tra le mani il reperto.
«Già… Una figura assai cara alla romanità e, in particolare, a Nerone, cultore di Apollo: una divinità spesso rappresentata con sembianze di lupo», precisò Grandi. «Ma prima di fare congetture e lavorare di fantasia, dobbiamo pulire la scultura e studiarla con attenzione.»
Poco più tardi, mentre Vittard spazzolava con precisione le incrostazioni sulla base del disco, l’attenzione dello skipper venne attratta da alcuni segni che potevano essere confusi con i riccioli del pelo del lupo.
«Guardi qui, ammiraglio!» esclamò Henry indicando un particolare poco sotto la scultura.
«Sembra… Sembra una scritta…» osservò Grandi.
«Già: più che una scritta, una sola parola… In caratteri arabi.»
«Arabi? Ne è sicuro, Henry?»
«Quasi certo, ammiraglio. Questi assomigliano proprio a caratteri cufici.»
«Cufici?» chiese ancora Grandi senza nascondere la sua incredulità. «Mi corregga se sbaglio, ma ciò significa che il reperto che ho appena recuperato potrebbe non essere antecedente ai primi secoli dell’egira?»
«È così; il lupo potrebbe risalire all’ottavo-decimo secolo dopo Cristo.»
«Questo rivoluzionerebbe tutto quello che ho creduto sino a oggi in merito al relitto, se di una parte del relitto si tratta. Che cosa c’è scritto?»
«Non conosco l’arabo antico a sufficienza per poter decifrare l’iscrizione, ma invierò per posta elettronica una riproduzione al mio amico Grégoire Funet della sovrintendenza di Orléans. Era il genio del corso di laurea ed era particolarmente versato per le lingue antiche.»
Quando la superficie del bassorilievo fu asciutta, Vittard fece aderire un sottile foglio di carta e ricalcò l’iscrizione con la punta di una matita. Subito dopo inserì il foglio nello scanner collegato al computer e allegò la riproduzione digitale della parola a un breve messaggio di posta elettronica, non senza aver preventivamente avvisato via telefono l’amico francese.
Circa un quarto d’ora più tardi, dopo che con trepidazione sia Grandi sia Vittard avevano consultato la casella di posta elettronica almeno un paio di volte, l’attesa risposta arrivò. Il testo era composto da una breve descrizione che comprovava l’origine dell’iscrizione come cufica. La parola che quei caratteri componevano era una sola: Muqatil, il Guerriero.
Matsue, Giappone, 1331
L’accoglienza riservata al Grande Generale nel corso della sua visita alla città di Matsue era stata predisposta in ogni minimo particolare: ogni crocevia era decorato con degli enormi stendardi rossi, sui quali si trovavano ideogrammi che esaltavano la statura di Takauji Ashikaga, valoroso comandante in capo dell’esercito dello shogun Hojo.
Il drappello composto da un centinaio di samurai guidati da Takauji giunse al castello abitato dal daimyo tra due ali di folla.
Hito Humarawa era ad attendere il suo generale poco oltre il ponte di legno, unica e presidiata via d’accesso per addentrarsi nello shiro di Matsue, la fortificazione ove risiedeva e il luogo da cui amministrava il suo incontrastato potere il prefetto della provincia di Shimane. Si trattava di un baluardo difensivo difficilmente espugnabile, dall’aspetto minaccioso.
Il castello era stato edificato sulla cima di una collinetta dalla quale si dominava buona parte di Matsue. I bastioni erano costituiti da imponenti basamenti di grosse pietre squadrate, alti diversi metri e impossibili da scalare agevolmente. Sopra questi erano stati innalzati i vari corpi, sette edifici in tutto, del complesso fortificato. Tra di essi svettava il tenshu , la torre meglio difesa e solida, là dove si sarebbero radunati gli assediati per l’estremo tentativo di resistenza, qualora i fossati esterni o quelli, numerosi, interni e allagabili non fossero riusciti a fermare gli assalitori.
Tutto era stato costruito con il legno, fatta eccezione per il basamento. L’uso del legname era stato da sempre preferito alla pietra per conferire una maggiore elasticità agli stabili, costretti a resistere ai frequenti terremoti che scuotevano il suolo giapponese: una minaccia ben più imprevedibile e violenta del più terribile tra i nemici.
Le pareti erano rivestite da uno spesso strato di intonaco di argilla impastata con il sale: un materiale molto robusto, purché preservato dagli agenti erosivi. Proprio per proteggere i rivestimenti dalle piogge, questi erano sovrastati da una struttura piramidale di tetti, che donavano al complesso fortificato la caratteristica sagoma a pagoda.
«Benvenuto a voi, mio generale», salutò Hito Humarawa accennando un inchino. Gli occhi neri e freddi del daimyo rimasero fissi in quelli dell’uomo che lo aveva voluto prefetto di una importante regione del Giappone.
«Sono felice di vederti, Hito, il più valoroso tra i miei samurai», disse il generale rispondendo con un gesto della mano alla moltitudine di persone che si attardava nei pressi del castello. «Ho molti argomenti da discutere con te, e ognuno di questi è di grande importanza.»
Entrambi si avviarono lungo il ponte di legno: un’intricata rete di travi e paiolati apparentemente solida, ma che, in caso di assalto, poteva essere abbattuta in breve tempo con pochi colpi di scure e di mazza in punti cardine della struttura.
Humarawa si fece da parte, lasciando che fosse il Grande Generale a sedere sulla sedia più alta nella sala principale del castello: quello era il trono dal quale il daimyo amministrava la giustizia e imponeva le sue leggi attraverso il terrore.
Ashikaga osservò attentamente quanto era stato scritto con pazienza su diversi fogli di carta di riso. Era l’inventario dettagliato dei valori che il daimyo avrebbe consegnato al generale.
Ashikaga assunse un’espressione soddisfatta.
«Sapevo che la fiducia che nutro in te non era malriposta, Hito. Oggi tu mi consegni un vero e proprio tesoro.»
«Sono qui per servirvi, mio generale», rispose Humarawa, e i suoi occhi incrociarono quelli di Ashikaga, senza mai mostrare sottomissione o paura.
«Già, ma la tua prefettura ha un gettito pari a dieci volte quello della più ricca del Giappone. Lo shogun sarà contento del tuo operato e dimenticherà finalmente certe voci…»
Hito Humarawa sapeva bene che ben poche delle ricchezze da lui accumulate con ogni mezzo sarebbero finite nelle casse dello shogun Hojo. La maggior parte dei lingotti d’oro, delle stoffe, delle porcellane e di quant’altro andava a offrire al Grande Generale sarebbe servita unicamente a finanziare i sogni di gloria dello stesso Ashikaga.
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