Una volta a bordo del C’est Dommage svestirono le mute e lavarono accuratamente con acqua dolce le attrezzature: dalla perfetta manutenzione dipendeva la loro sopravvivenza sott’acqua.
Grandi scosse il capo, rompendo il silenzio.
«Mi sento alquanto demoralizzato, Henry. Non vorrei che lei pensasse di essersi imbarcato in un’impresa…»
«Fermo, ammiraglio! Se non sbaglio ci troviamo tutti e due sulla stessa barca… E mai un detto fu più appropriato», lo interruppe lo skipper con un sorriso amichevole.
«Certo, ma sono ormai tre giorni che ci immergiamo e l’unico reperto che abbiamo rinvenuto, oltre alla testa di lupo, è una catena d’ancora che qualche turista disattento ha abbandonato in mare. Quest’ultimo ritrovamento si potrebbe far risalire a un’epoca storica che combacia con la scorsa estate. Davvero eccezionale!» commentò l’ammiraglio in tono scherzoso e amareggiato al tempo stesso.
«So bene che individuare un relitto può costare anni di fatica e di insuccessi. Non è questo che mi spaventa. Dobbiamo scandagliare quasi un miglio quadrato di sabbia e le nostre sonde hanno accertato una profondità del banco spesso superiore ai venti metri. Non è una ricerca facile.»
Il rumore di un fuoribordo ruppe la quiete della baia. Una coppia di asiatici a bordo di un gommone si aggirava nei paraggi e agitò le mani in cenno di saluto. La donna stringeva una videocamera, accessorio inseparabile per i turisti giapponesi.
Vittard e Grandi risposero al saluto, mentre la piccola imbarcazione sfilava lungo il fianco del C’est Dommage all’ancora.
«Prepariamoci, ammiraglio», disse Vittard una volta che i turisti orientali si furono allontanati. «Le previsioni meteorologiche per questa notte prevedono burrasca proveniente da sud. Punta Marsala è aperta allo scirocco. Credo ci convenga salpare e ancorare in una cala riparata, almeno fino a quando il tempo non si sarà calmato.»
Poco più tardi Henry ordinò ad Akir, il fedele marinaio magrebino, di mollare gli ormeggi e, percorse poche miglia, il C’est Dommage diede nuovamente fondo nella baia di Cala Rossa, dalla parte opposta dell’isola di Favignana.
Isola di Oki, mar del Giappone, 1331
L’imperatore Go-Daigo, chiuso nel suo esilio dorato nell’isola di Oki, sembrava una belva in gabbia. Proprio lui, sin dal momento del suo avvento al trono tredici anni prima, aveva cercato di modificare l’antica figura di «imperatore di clausura». Forse il suo desiderio di prendere parte alla vita politica del paese era il motivo principale della sua disgrazia. A ogni modo, malgrado l’allontanamento, Go-Daigo godeva ancora di nutrite schiere di sostenitori, pronti a sacrificarsi con le armi in pugno per la sua restaurazione. Tuttavia queste forze non erano sufficienti per destabilizzare la dittatura militare imposta dagli shogun della famiglia Hojo.
L’imperatore Go-Daigo aveva conosciuto l’onta della sconfitta e proprio per questo si trovava esiliato su un’isola nel mar del Giappone.
Mai più l’imperatore avrebbe sottovalutato la forza degli usurpatori Hojo. Ogni sua stilla di energia sarebbe stata consumata per riprendere possesso del potere che gli dei avevano affidato a lui e che i ribelli gli avevano sottratto.
Le interminabili giornate del sovrano trascorrevano tra messe a punto di strategie e sogni di riconquista. Nel momento in cui, però, si dovevano tirare le somme, Go-Daigo e i suoi fedelissimi si accorgevano che mancava una pedina fondamentale per sovvertire gli Hojo: un vero esercito pronto a scendere in armi contro lo shogun e le sue armate.
La visita del comandante in capo dell’esercito shogunale e del suo più fedele rappresentante non era stata preannunciata da nessuna ambasciata. Forse per questo Go-Daigo non riuscì a nascondere un’espressione di meraviglia quando i due vennero accompagnati al suo cospetto.
Sia Humarawa sia Ashikaga s’inchinarono rispettosamente dinanzi all’imperatore.
«Quale importante notizia spinge il Grande Generale e il suo fido daimyo a far visita a un imperatore senza impero?» chiese Go-Daigo, non appena rimase solo con i due uomini.
«Certo, non posso dire che si tratti di una semplice visita di cortesia, vostra maestà. Credo che i tempi siano maturi perché voi ritorniate in possesso del potere che vi spetta per volontà divina», venne subito al dunque Ashikaga.
«Mi sorprende non poco che sia proprio il comandante delle forze degli usurpatori Hojo a pronunciare tali frasi.»
Go-Daigo dimostrava molto di più dei suoi quarantatré anni. Quella frase però accese il suo volto come se fosse un bambino davanti a uno spettacolo di fuochi cinesi.
«E come vorreste combattere le forze dello shogun? Forse con una flottiglia di wako ? Davvero voi pensate che l’intero esercito seguirebbe il suo generale in una diserzione di massa?» domandò l’imperatore, fissando negli occhi Humarawa mentre pronunciava il nome dei terribili pirati.
Quello sguardo severo fu molto più eloquente di mille parole: i sospetti sull’identità del feroce capo dei pirati che circolavano da qualche tempo erano di certo giunti anche all’orecchio dell’imperatore.
Per fortuna, la pronta risposta di Ashikaga ruppe l’atmosfera gelida che sembrava essere calata sui tre nobili orientali.
«No, non seguirebbero il loro generale, ma il loro legittimo sovrano. Le oppressioni imposte dagli Hojo stanno suscitando nel popolo un malcontento crescente. Senza contare che vostro figlio, il principe Morinaga, assieme al suo fido samurai Masashige, è impegnato a raccogliere attorno al vostro nome dei veri e propri eserciti. Dobbiamo solo aspettare. Voi sapete che avrete me e i miei dalla vostra parte, divino imperatore.»
«E io sarò pronto a ricompensare il vostro aiuto nella maniera che meritate.» Go-Daigo aveva centrato nel segno e lo sapeva: le mire di Ashikaga alla nomina di shogun non erano poi così segrete.
Tabarqa, 1331
La catena che chiudeva l’imboccatura del porto impedendone l’ingresso venne abbassata con grande lentezza e attenzione. Le due navi scivolarono nel buio di una notte senza luna. Il Muqatil stava sulla tolda, rivolto verso poppa, e osservava la collina dalla quale gli assedianti avrebbero potuto cercare di colpire le imbarcazioni con il lancio delle catapulte. Sembrava che proprio quella notte gli infedeli si fossero dimenticati di presidiare la zona del porto: al di là della cinta protettiva di Tabarqa non si scorgeva la solita animazione delle sentinelle disposte sopra le alture e sulle torri d’assalto.
Il profumo del mare amico ebbe il potere di risvegliare nel Muqatil e nei suoi il desiderio della libertà da troppo tempo preclusa a chi vive in stato di assedio.
Le due navi da guerra filavano appaiate, sebbene la galea del giovane emiro, più veloce, dovesse sovente ridurre l’andatura per rimanere al passo con l’altra. Il Muqatil aveva appreso dagli antichi maestri d’ascia mille e mille segreti per adattare le carene all’onda, le vele al vento o per consentire l’immersione dei remi ideale alla vogata. Quando, ancor adolescente, aveva lasciato Tabarqa per combattere i nemici sul mare, aveva lui stesso progettato la sua nave e i risultati erano evidenti anzitutto alle galee cristiane, nel momento in cui si lanciavano in inutili inseguimenti.
Da tre giorni le imbarcazioni incrociavano al largo di Ras Addar, aspettando al varco le navi che rifornivano di viveri gli infedeli, quando la vedetta prese a gridare: «Vele all’orizzonte!»
A nord, incastonate nel confine indefinito tra mare aperto e cielo, si scorgevano delle piccole sagome bianco-grigie, simili a perle posate sopra un velo azzurro di seta.
«Lanciamo la sagola a cui è legata la catena e prepariamoci a prendere in trappola gli infedeli», comandò l’emiro ai suoi.
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