Marco Buticchi - Profezia

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Nessuno dei quattro, uscendo, notò che uno sguardo seguiva ogni loro mossa.

Rientrata in albergo, Sara collegò alla rete il computer portatile che aveva con sé, aprendo la casella dei messaggi in arrivo. Letta la notizia del dirottamento, aveva mandato infatti subito un messaggio a Oswald Breil, che però non aveva ancora risposto. Anche questa volta la casella era vuota. Evidentemente il suo minuscolo amico aveva cose più gravi di cui occuparsi, pensò con disappunto.

17

Mediterraneo meridionale. 23 luglio 1999

Didier Fosh avanzava a testa bassa sullo scalandrone della corvetta israeliana, scortato da due uomini di Bykov armati. Sul ponte lo aspettavano Breil con i suoi collaboratori e lo stesso Bykov.

Sull’ultimo scalino Fosh sembrò inciampare, e uno dei due guardiani si chinò per aiutarlo. L’incauto movimento bastò perché Fosh gli strappasse con una mossa fulminea la pistola.

«Non scoprirete mai i segreti dei miei fratelli», esclamò, puntando l’arma verso Bykov e facendo fuoco. Poi si puntò la pistola alla tempia.

Oswald gli fu addosso come il fulmine, caricandolo con la spalla destra. Il colpo, inferto all’altezza del bacino, fu sufficiente perché l’arma di Fosh si alzasse. Invece di entrare nella tempia, il proiettile si conficcò nella parte alta della testa, uscendo dalla calotta cranica.

Bykov era steso sul ponte. Da un angolo della bocca gli colava un rivolo di sangue. Rosso come i rubini dei Romanov.

«Va bene così», riuscì a mormorare prima di morire. «È troppo tempo che Nadja mi aspetta con nonno Igor.»

Il referto comunicato poco dopo a Oswald Breil dal personale medico della Sa’ar 5 diceva che Fosh era grave, ma poteva cavarsela. Sarebbero comunque trascorse diverse ore prima che potesse essere sottoposto a interrogatorio.

A Oswald fu anche consegnato ciò che era stato trovato addosso al banchiere. Tra l’altro, un cordoncino rosso impreziosito da un filo d’oro zecchino.

Pat Silver e Lionel Goose seguirono il comandante per i passaggi e le scale normalmente usati dall’equipaggio, dove potevano sperare di non imbattersi nei terroristi. Scesero diversi piani, fino al ponte sotto cui c’era soltanto lo scafo della Queen of Atlantis.

Raggiunto il reparto dell’inceneritore, l’odore sgradevole dei rifiuti li colpì come una mazzata, ma Di Bono chiamò sottovoce il suo subalterno.

Vassalle sbucò subito da dietro uno dei forni, impugnando la pistola. Dietro di lui fecero capolino poco dopo anche Maggie e Gerardo. Con un grido soffocato, la giovane gettò le braccia al collo di Pat, stringendosi disperatamente a lui.

«Presto, presto», li interruppe concitatamente Di Bono. «Dobbiamo riuscire a tornare sui ponti superiori. Forse troveremo un modo per metterci in contatto con il mondo esterno e comunque, rimanendo qui nascosti, non saremo di nessun aiuto.»

Quindi ordinò al sestetto di dividersi in tre gruppi, ognuno con una pistola, incaricando Maggie e Pat Silver di cercare un sistema di comunicazione funzionante. Gli altri intanto avrebbero studiato le mosse dei terroristi. Si sarebbero ritrovati tutti lì dopo un’ora.

Sul corridoio si apriva una lunga fila di porte. Pat consegnò la pistola a Maggie, dicendole in un soffio: «Vedi se riesci a trovare un telefono che funzioni, o un cellulare sfuggito ai terroristi. Io intanto cerco di raggiungere la sala radio. Ci troviamo qui tra dieci minuti».

Quindi si dileguò, mentre Maggie cominciava a ispezionare le cabine.

La sua ricerca apparve subito infruttuosa: le perquisizioni erano state fatte con grande cura. Per scrupolo provò comunque tutti i telefoni di ogni stanza, ma sempre con la stessa delusione.

Era appena entrata nella decima cabina, quando un fruscio la costrinse a voltarsi. Si vide davanti Hans Holoff con un livido sorriso di trionfo, affiancato da due uomini armati. Le sfilò la pistola di mano, dicendole con il suo duro accento tedesco: «Lei è molto bella, signora, ma altrettanto ingenua. Il computer di bordo ci ha segnalato ogni suo movimento a mano a mano che sollevava le cornette. Forza, venga con noi».

Maggie fu bruscamente portata nel teatro con gli altri ostaggi, e dopo qualche istante sentì una mano sfiorarle affettuosamente una spalla. Voltatasi, vide suo marito, che cercava di tranquillizzarla.

Sentendo che il coraggio stava per abbandonarla, gli si strinse.

Hans Holoff salì sul palcoscenico e impugnò il microfono.

«Tra poco più di un’ora sarete liberi: stiamo per andarcene. Avete visto che cosa significa non attenersi rigorosamente ai nostri ordini, quindi badate bene a ciò che fate. Per evitare sorprese, porteremo con noi due ostaggi, e precisamente due signore», disse, indicando le prescelte tra la folla. «Vi consiglio di seguirci con le buone e di non costringerci a usare di nuovo armi. Gli altri devono soltanto aspettare che vengano aperte le porte antincendio, che chiuderemo. Addio.»

La prima donna indicata da Holoff era Paola Lari. La seconda, Maggie.

«Un momento, signore», sbottò Timothy. «Sono un dirigente dell’antiterrorismo americano. Credo che come ostaggio possa esservi più utile io di mia moglie. Prendete me.»

Holoff rimase un attimo pensoso, con un sorriso strano, poi rispose: «Un dirigente dell’antiterrorismo yankee, eh? Niente meno. Mi ha convinto. Sua moglie può rimanere qui. Venga lei con noi».

Maggie tornò a stringersi al marito e scoppiò in singhiozzi: si stava sacrificando per lei, e soltanto poco tempo prima lei lo aveva tradito. Ma due uomini in tuta bianca la strapparono dalle braccia di Timothy, spingendolo via con le armi puntate alla schiena.

Pat arrivò all’appuntamento con un leggero ritardo. Per raggiungere la sala radio e constatare che i terroristi l’avevano messa fuori uso c’erano voluti molto di più dei dieci minuti previsti. Atteso invano che Maggie lo raggiungesse, dopo mezz’ora decise di andarsene, oppresso da un sinistro presentimento.

Tornato nel locale dell’inceneritore, dovette aspettare un po’ in preda a una profonda ansia prima che arrivassero gli altri. Quando finalmente li vide, la fiammella di speranza che si era concesso si spense. Maggie non era con loro.

Pat spiegò rapidamente quanto era accaduto, assumendosi la colpa di averla lasciata sola.

«Devo ritrovarla», concluse. «A ogni costo. Potete darmi una delle vostre pistole, visto che io ho dato la mia a Maggie?»

«È meglio che venga con lei», replicò Pietro Vassalle. «Per cercare la signora Hassler le occorre qualcuno che conosca bene la nave.»

Nel teatro, intanto, Derrick Grant era stato il primo ad avvicinarsi alla pesante porta in acciaio, capace di resistere due ore al fuoco.

Raggiunto da altri, incoraggiati dal suo atteggiamento deciso, cercarono tutti insieme di forzarla, ma inutilmente: quella barriera in acciaio non avrebbe mai ceduto.

«La Queen of Atlantis si è fermata», annunciò l’ufficiale addetto al radar.

L’omino rifletté qualche istante, quindi chiese al comandante della Sa’ar 5 : «Può far venire l’ufficiale medico?»

Il giovane medico si presentò subito nella sala comando.

«Come sta il banchiere?» gli chiese Oswald.

«Migliora, signor vice ministro. Credo di poter azzardare che se la caverà.»

«Tra quanto pensa che potremo interrogarlo?»

«Se tutto continua così, fra due, tre giorni al massimo.»

«No, non possiamo aspettare tanto a lungo. Con ogni probabilità quell’individuo fa parte di una setta di assassini pronti a tutto, anche a uccidersi, come ha visto. Si sono impadroniti di una nave con circa cinquemila persone. E su quella nave ci sono anche tante testate nucleari da distruggere mezzo mondo. Non crede che basti per sottoporre quell’individuo a una terapia intensiva per sciogliergli la lingua?»

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