Marco Buticchi - Profezia

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Poco prima d’impartire l’ordine di salpare, Arthur Di Bono telefonò al dottor Redjia. «Ci sono novità?»

«Il paziente ha mostrato un leggero miglioramento, ma le sue condizioni continuano a essere gravissime», rispose il medico.

Posato il ricevitore, Di Bono andò in plancia, e, poco dopo, la Queen of Atlantis si staccò dal molo del porto antico di Rodi.

Intanto, appena rientrata nel suo appartamento, Paola Lari aveva cominciato a esercitare la voce in vista del secondo spettacolo, previsto per quella sera.

Gerardo, invece, aveva aperto la sua inseparabile agenda tascabile e riportato sul computer portatile alcune interessanti notizie sui Cavalieri di San Giovanni apprese durante la visita a Rodi.

Nonostante la passione per la tecnologia, trattava la sua fida Muleskin come una reliquia: alcuni antenati di quel libriccino erano stati usati da scrittori come Hemingway. Terminato di riportare gli appunti nel computer, se la mise in una delle tasche dello smoking estivo che avrebbe indossato per la serata di gala.

La cena fu come sempre squisita, ma gli ospiti si affrettarono a lasciare il ristorante per trasferirsi nella sala teatro, dove Paola Lari avrebbe tenuto il suo attesissimo spettacolo.

Prima di salire sul palcoscenico, gli aveva spiegato Paola, preferiva non mangiare, per cui lui aveva cenato da solo. E adesso si stava inoltrando nell’ampio corridoio verso il teatro, quando avvertì una presenza al suo fianco. Hans Holoff, che sembrava avere una gran fretta, lo urtò, facendosi largo tra gli spettatori. Gerardo sentì un colpo secco all’altezza della tasca destra della giacca, ma non gli diede peso.

Si preoccupava soprattutto di non perdere di vista Holoff.

A Pat Silver, invece, il concerto non interessava assolutamente e, come capitava spesso, aveva fatto perdere le sue tracce al gruppo di amici, filandosela al casinò.

Inforcati gli occhiali, stava giocando da circa un’ora con alterna fortuna al tavolo del Caribbean Poker, quando un signore dai modi gentili ma fermi si qualificò come direttore della sala da gioco e gli chiese di seguirlo nell’ufficio del comandante.

Dana Pettersson era una signora di mezza età, leggermente sovrappeso. Una qualsiasi degli oltre tremila croceristi della Queen of Atlantis. Cominciò a sentirsi male durante lo spettacolo di Paola Lari. L’amica che l’accompagnava nella crociera la condusse fuori dal teatro, sorreggendola per un braccio. Mentre entravano nell’ascensore per salire verso la loro cabina, Dana stramazzò a terra in preda a convulsioni.

Quasi nello stesso istante, altri due uomini dell’equipaggio accusarono i sintomi del contagio.

Redjia era chino sul paziente. Il sangue nelle urine era comparso subito dopo la partenza da Rodi. Quasi contemporaneamente il corpo del filippino si era coperto di ematomi. Un preciso indizio dell’aumentare delle emorragie interne e quindi di ulteriore peggioramento del quadro clinico. Sebastian Chalang era morto per un sopravvenuto blocco renale.

Il medico indiano scosse la testa, angosciato. Il sospetto che nutriva da quando i sintomi avevano assunto una certa configurazione era purtroppo confermato. Alle sue labbra affiorò quasi inconsciamente una parola.

Una sola, ma tale da far venire i brividi anche a un medico anziano ed esperto come lui: «Ebola».

Pat era seduto davanti ad Arthur Di Bono, mentre il direttore del casinò armeggiava con un videoregistratore.

«Le sue cospicue vincite hanno allarmato il personale della casa da gioco, signor Silver», disse il comandante.

«Be’, non è detto che un giocatore debba perdere per forza. Non crede?» ribatté prontamente Pat.

«Ci sono modi e modi di vincere», replicò imperturbabile il comandante. «E ci siamo accorti che il suo dà adito a molte perplessità.»

Sullo schermo a parete cominciarono a scorrere le immagini riprese da una telecamera nascosta.

«Come certo saprà, signor Silver, ogni sala da gioco è controllata da telecamere a circuito chiuso. Per un problema d’illuminazione, abbiamo dovuto sostituire alcune delle nostre tradizionali con altre a raggi infrarossi. Il risultato lo può vedere lei stesso.»

Il direttore della sala da gioco cominciò a ingrandire il fermo immagine di alcune carte tenute in mano da Pat: sul dorso apparivano distintamente diverse impronte di dita visibili soltanto agli infrarossi.

«Lei ha impresso con materiale sensibile segni di riconoscimento sulle carte da gioco, signor Silver, dopo di che, nel corso delle mani successive, con i suoi occhiali a infrarosso riusciva a leggere il punto del croupier», lo accusò senza mezzi termini il direttore del casinò.

«Posso vedere quegli occhiali, signor Silver?» incalzò con calma il comandante.

Pat glieli porse. Era inutile traccheggiare: lo avevano beccato.

«Questa nave batte bandiera americana, signor Silver, e le nostre leggi prevedono pene molto severe per bari e truffatori», concluse Di Bono, facendogli dondolare davanti gli occhiali. «Ma la nostra compagnia preferisce non rendere pubblici eventi così incresciosi. Se restituirà quanto indebitamente sottratto e si atterrà al divieto di frequentare il casinò, nessuno saprà niente.»

Proprio in quel momento squillò il telefono. Da grave, l’espressione del comandante si fece livida.

‹CHI SAREBBE QUESTO IOSIF BYKOV?› digitò Sara Terracini.

‹L’UOMO DI CUI CI HA INFORMATO GERARDO DI VALNURE NEL SUO ULTIMO MESSAGGIO, DICENDO CHE LO HA VISTO PARLARE CON HANS HOLOFF. SIAMO RIUSCITI A IDENTIFICARLO. È UN MERCANTE D’ARMI RUSSO›, rispose Oswald Breil.

‹CHE RAZZA DI FAUNA HANNO IMBARCATO SULLA QUEEN OF ATLANTIS ? INFORMO SUBITO GERARDO. A CHE PUNTO SONO I MIEI LASCIAPASSARE PER ROSSLYN?›

‹A BUON PUNTO. ARRIVERANNO FRA QUALCHE GIORNO.›

Lasciata la tastiera del computer, Oswald tornò a parlare con Erma.

«Vediamo di riassumere. Un uomo degli ex servizi dell’Est, assoldato da una pericolosa setta segreta, s’incontra con un grosso mercante d’armi. Si può supporre che stiano trattando una partita di merce. Ma perché su una nave da crociera?»

«Tra poche ore la nave arriverà a Haifa, e sarà lo stesso Holoff a spiegarci tutto.»

22 luglio 1999

Arthur Di Bono aveva appena comunicato il pericolo di epidemia alle autorità sanitarie israeliane, ma adesso doveva informare anche i croceristi. Bisognava agire con tatto, se non voleva scatenare una pericolosa crisi di panico. Tirato un respiro profondo e aperto il sistema interfonico di bordo, annunciò che un pericolo di contagio imponeva di adottare misure igieniche eccezionali.

Intanto il dottor Redjia aveva appena terminato di trasformare una delle due camere operatorie in stanza sterile, ricoverandovi i tre nuovi malati. Ma sapeva che da un momento all’altro sarebbero arrivate altre persone infettate dal virus.

Ci siamo, si disse infatti quando bussarono alla porta, ma ebbe il sollievo di trovarsi davanti una simpatica americana che, oltre ad avere un tono di grande efficienza, sembrava il ritratto della salute.

«Sono Annie Ferguson», gli spiegò subito la donna. «Dirigo un laboratorio d’immunologia e virologia in Nuova Scozia. Ho appena sentito il messaggio del comandante e sono venuta subito a mettermi a sua disposizione, sempre che la mia esperienza possa esserle utile.»

Prima di rispondere, Redjia la scrutò qualche istante attraverso le lenti. «Se la situazione dovesse evolversi come temo», disse finalmente, «avremo bisogno non soltanto di tanta esperienza, ma anche di moltissima fortuna. E una virologa non può che esserci utile. Purtroppo però non disponiamo di strumenti di analisi adeguati.»

«Quale pensa possa essere il virus responsabile dell’epidemia?»

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