Marco Buticchi - Profezia

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«A rinforzare questa mia tesi», incalzò Toni, «c’è il fatto che la Chiesa non ha mai voluto considerarla una reliquia sacra. Ci sono lettere a papa Clemente VII da parte d’illustri prelati, dove, tra l’altro, si legge: ‘ Sono convinto di non poter esprimere a sufficienza la deplorevole natura dello scandalo della Sindone, prodotto dell’ingegno umano e non di qualcosa di miracoloso’. Lo ha scritto il vescovo d’Arcis sul finire del XIV secolo. Insomma, la Sindone diventa reliquia cristiana soltanto in tempi recenti, ma senza il placet ufficiale della Chiesa. E vuoi che ti ripeta come la penso sul cordoncino rosso trovato nella Cappella del Guarini mentre il fuoco attaccava la teca della Sindone?»

Sara annuì intenta, e Toni proseguì: «Sono sempre più convinto che quel rogo misterioso fosse un segnale per i componenti della setta».

«Dove hai messo la tua proverbiale prudenza, Toni? Abbiamo già discusso questa ipotesi, concludendo che, se dovesse rispondere al vero, ci sarebbe da avere una gran fifa. Mi sembra che tu stia fantasticando troppo su trame segrete e minacce incombenti», ribatté Sara, alzandosi dalla scrivania e avvicinandosi al vetro schermato della finestra. A pochi metri dal portone vide alcuni operai intenti a sistemare il marciapiede.

Stavano evidentemente riparando i danni del presunto attentato mafioso fallito di cui avevano parlato i giornali. Ma Oswald le aveva spiegato bene che cosa era in realtà successo.

Non vide però l’auto con i due agenti israeliani che lo stesso Oswald aveva ordinato la tenessero sotto controllo giorno e notte.

Luglio 1313

Luigi si era completamente rimesso, ma quelle interminabili peregrinazioni per mare lo stavano estenuando. Trovava però intenso sollievo nella prospettiva che tra pochi giorni avrebbe riabbracciato i suoi cari.

L’emiro non si stancava mai di sentirlo parlare di Shirinaze e Lorenzo, esplodendo sonore esclamazioni e battendo le mani felice come un bambino quando gli raccontava del profondo affetto che legava il piccolo alla madre.

Lasciatasi a poppa le coste della Sicilia, la nave stava ormai risalendo la penisola italiana.

Prima di sbarcare, l’emiro abbandonò i lussuosi abiti moreschi per abbigliarsi da mercante cristiano del Levante, e altrettanto fecero i sette uomini che li avrebbero scortati fino a Piacenza.

Per la Cristianità Ibn ben Mostoufi rimaneva un nemico, ed era in territorio ostile. Ma il desiderio di riabbracciare la figlia e conoscere il nipotino cancellava ogni timore: avrebbe infilato la testa anche nella tana di un lupo.

Raymond de Ceillac aveva esaminato a uno a uno i cinquanta uomini concessigli dal re di Francia. Quindi aveva comandato loro di lasciare Parigi a gruppi di due, tre al massimo, per riunirsi con lui in una zona boschiva nei pressi del castello di Valnure.

Soltanto a quel punto li avrebbe messi al corrente dell’astuto piano che aveva in mente. Non era infatti pensabile cingere d’assedio il maniero dei Valnure: per avere ragione di quelle mura non sarebbero bastati tremila uomini e qualche anno. Bisognava agire d’astuzia.

Non appena furono finalmente tutti riuniti, spiegò: «Mi servirò dell’affetto che lega Lorenzo a suo cugino Bertrand de Rochebrune per introdurmi con tre di voi nel castello. Dirò che porto sue notizie. Nottetempo, dopo aver avvelenato il conte, metteremo fuori causa gli uomini di guardia al ponte levatoio. Al che farete irruzione nel castello, cogliendo di sorpresa i soldati».

Poche ore più tardi il conte Lorenzo di Valnure stava giocando allegramente con il nipote, quando una guardia entrò nella sala dicendogli: «Un uomo chiede di conferire con voi, signore».

«Digli che concedo udienza soltanto di mattina», replicò il conte, continuando a giocare e fingendosi gravemente ferito dal fendente infertogli dal bambino con una spada di legno.

«Chiedo perdono», insistette la guardia, «ma ha detto di riferirvi che viene a nome di vostro cugino Bertrand.»

«Perché non me l’hai detto subito? Portalo qui. Perdonami, Lorenzo, ma adesso il nonno deve occuparsi di una cosa importante.»

Lorenzo accolse lo straniero da amico. Dopo che lo ebbe fatto parlare a lungo, si convinse che sapeva molte cose di suo cugino Bertrand, compresa l’esistenza della leggendaria terra di cui gli avevano tanto parlato Luigi e Shirinaze.

Mentre conversavano, però, trasse distrattamente dalla cintura un cordoncino rosso, impreziosito con un filo d’oro zecchino. Sembrava che ci stesse giocherellando come con un rompicapo, ma in realtà le sue dita stavano componendo un nodo. Se lo straniero conosceva davvero bene Bertrand, non poteva non sapere di che cosa si trattava.

Invece l’ospite non mostrò la minima reazione, nemmeno quando lui gli posò davanti il cordoncino annodato. La procedura di riconoscimento tra «fratelli» avrebbe voluto che estraesse un cordone identico, assicurandolo a quello di Lorenzo con il medesimo nodo.

Da tutto ciò che mi ha detto, rifletté perplesso l’anziano conte, quest’uomo è senza dubbio un Templare. Come mai, allora… Evidentemente non si è ancora affiliato al nuovo Ordine.

Era comunque il caso di agire con prudenza. Quindi non rivelò all’ospite che Shirinaze e il piccolo erano al castello, né che si sperava Luigi li raggiungesse entro qualche giorno.

«Sarete stanco, cavaliere», concluse. «Vi ho fatto preparare una stanza, e i vostri uomini troveranno alloggio nelle scuderie. Riposate qualche ora. Ceneremo al calar del sole.»

Raymond de Ceillac tornò però nel salone con notevole anticipo. Controllato attentamente che fosse deserto, si accostò furtivamente al tavolo dove avrebbero pranzato, su cui erano già state sistemate alcune brocche in peltro. Presa quella del vino, vi versò una pozione mortale preparata da un alchimista. Rimessala precisamente dove l’aveva trovata, prese ad aggirarsi per la sala con aria innocente, fingendo un grande interesse per i trofei di caccia appesi alle pareti.

E quando poco dopo Lorenzo di Valnure lo raggiunse, dopo un breve scambio di battute, esclamò con falso calore: «È d’uopo un brindisi a vostro cugino, il mio indimenticabile maestro e comandante Bertrand de Rochebrune».

«Molto giusto», convenne immediatamente Lorenzo, prendendo la brocca piena di ottimo rosso proveniente dai suoi poderi, riempiendo due calici e portandosi il suo alla bocca.

In quel momento la porta del salone si aprì, e Shirinaze scrutò incredula l’uomo che stava brindando con suo suocero. Si fermò così soltanto qualche istante, poi esplose in un urlo.

Lorenzo di Valnure rimase come impietrito, con il calice sollevato nella mano destra e un’espressione interrogativa. Ma già il traditore aveva estratto uno stiletto dalla cintura e gli si era fatto addosso. La lama si conficcò nel fianco di Lorenzo, che si accasciò a terra, mentre Shirinaze afferrava una delle spade appese alla parete.

De Ceillac schivò un primo fendente. La donna sollevò a fatica la spada, pronta a vibrare un secondo colpo, ma il suo avversario si mosse veloce e letale come un aspide.

La lama dello stiletto balenò nell’aria e penetrò nel costato della giovane fino all’elsa. Con l’ultima forza che le rimaneva, Shirinaze riuscì ugualmente a vibrare il colpo prima di accasciarsi senza vedere più niente.

Stava calando il buio, ma Luigi e Ibn Ben Mostoufi decisero di raggiungere ugualmente il castello, a cui mancavano ormai soltanto poche miglia.

La torre comparve finalmente, svettando sopra gli alberi, e Luigi la indicò all’emozionato padre della sua sposa: tra poco avrebbe potuto riabbracciare la figlia creduta morta. Spronarono i cavalli al galoppo, frementi per il desiderio di raggiungere il maniero.

Le urla di disperazione che provenivano dagli appartamenti li raggiunsero quando erano ormai a poca distanza dal ponte levatoio.

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