Marco Buticchi - Profezia

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Hans Holoff aveva seguito il taxi di Gerardo di Valnure fino al laboratorio di Sara Terracini. Parcheggiata l’auto all’ombra di un grosso pino, si era preparato ad aspettare.

Ma erano trascorsi soltanto pochi minuti quando davanti al palazzo si era fermato un secondo taxi. Ne aveva visto smontare un omino, un vero e proprio nano , scomparso in un lampo oltre il portone. Holoff aveva lavorato troppo tempo in uno dei più efficienti servizi segreti per non riconoscere Oswald Breil. Un nome sinonimo di guai.

«Si è fatto tardi», disse Oswald dopo tre quarti d’ora. «Ho un appuntamento con il mio parigrado italiano. Ma da questo momento dobbiamo agire in stretto contatto e sempre usando le massime cautele per ogni nostra comunicazione. Se i miei sospetti sono giusti, vi stanno sicuramente tenendo sotto controllo. E forse anche me. Sara, mi fai chiamare un taxi, per cortesia?»

«Se non disturbo, Oswald», disse Gerardo, «verrei con lei fino a dove deve andare, per poi farmi portare in stazione. Il prossimo treno per Piacenza parte tra circa un’ora, e non vorrei perderlo.»

Il taxi arrivò dopo qualche minuto. Mentre montavano, notarono appena un jogger che si stava avvicinando di corsa sul marciapiede.

Nonostante il caldo torrido, portava una pesante tuta completa. La fronte era nascosta da una spugna anti sudore, e gli occhi da grossi occhiali scuri. Parte del viso era coperta da un asciugamano di spugna infilato nel colletto della tuta.

Arrivato di fianco al taxi, il jogger sembrò mettere un piede in fallo sul marciapiede sconnesso e si appoggiò alla vettura per non cadere.

Senza rendersi subito conto di che cosa fosse, Gerardo vide un involto scivolare sulle gambe di Oswald dal finestrino aperto. Ma si sentì gelare il sangue non appena si accorse che sprigionava un fumo denso e acre.

Stupefatto, vide Breil, sempre impassibile, aprire di scatto la portiera, proprio mentre il taxi partiva, e gettare fuori l’ordigno. Avevano fatto pochi metri quando si sentì il tonfo sordo di un’esplosione.

Sempre impassibile, Oswald indicò all’autista del taxi dove voleva essere portato: un sottopassaggio a una traversa di distanza dal semaforo dove l’aveva lasciato l’auto dell’ambasciata.

13

Giugno 1313

La fusta dell’emiro Ibn ben Mostoufi navigava sulla rotta di casa provenendo dalle terre dei Mentesce. Aveva ancora davanti a sé molti giorni di mare. Il carico l’appesantiva, riducendone di molto la velocità. Per questo aveva perduto il contatto con il resto della flottiglia.

«Relitto a prora», gridò improvvisamente una vedetta. «All’erta, mi sembra che trasporti un naufrago.»

Ibn ben Mostoufi diede ordine di accostare.

«È un ferengi , effendi, un infedele», gli disse il comandante non appena ebbero il barile sotto bordo. «Sembra moribondo. Abbandoniamolo al suo destino.»

Gli occhi di Ibn ben Mostoufi divennero due fessure. Come in un lampo gli tornò alla memoria il cristiano che si gettava nel mare in tempesta per soccorrere sua figlia Shirinaze.

«Lasceresti che i gabbiani cavino gli occhi e strappino le carni a un uomo vivo quando potremmo salvarlo, anche se si tratta di un cristiano? È questa la carità che hai appreso dal Corano? Siamo tutti figli del Libro», gridò con voce sdegnata. «Issatelo immediatamente a bordo e fate tutto il necessario per salvarlo.»

Dopo tre giorni e tre notti passati in balia delle onde, Luigi di Valnure era completamente anchilosato e alternava sprazzi di lucidità a lunghi periodi d’incoscienza. Si era cibato della poca carne salata rimasta attaccata al fondo della botte e aveva combattuto la disidratazione lambendo il liquido trasudato dalla carne. Ma anche quelle misere scorte alimentari erano finite: la morte era ormai prossima.

Quando nel riverbero infiammato del sole, che gli impediva di vedere, avvertì uno sciabordio seguito da voci in una lingua sconosciuta, pensò che fosse il delirio finale.

Invece si sentì afferrare da braccia robuste e issare fuori dal barile.

Filippo IV, re di Francia, aveva adibito a sala del trono l’ampio salone del Tempio di Parigi dove, fino a pochi anni prima, concedeva udienza il Gran Maestro dei Templari.

Raymond de Ceillac entrò nella stanza e gli s’inginocchiò davanti, piegando la testa in segno di sottomissione.

«Quale impellente urgenza può mai aver spinto un Templare a chiedere udienza al re di Francia?» gli chiese Filippo, facendogli magnanimamente cenno di alzarsi. La diserzione di un ex Cavaliere del Tempio non poteva che fargli piacere.

«Il desiderio di ottenere perdono e giustizia, Maestà», rispose de Ceillac con uno sguardo gonfio di perfidia. Ma non sarebbe mai arrivato a rivelare l’esistenza delle terre al di là dell’Oceano, dove, sistemati i conti con Bertrand de Rochebrune e Luigi di Valnure, avrebbe fatto ritorno per impossessarsi di sconfinate ricchezze.

«So dove si nasconde il traditore che più di tutti state cercando. E conosco anche l’identità del suo più fedele collaboratore.»

Filippo IV manifestò subito un vivo interesse: «Chi sarebbero costoro?»

«Anzitutto Bertrand de Rochebrune, che, sappiate, sta cercando di riorganizzare l’Ordine del Tempio. Poi Luigi, discendente dei Valnure, una famiglia di Piacenza, in Italia. Sono entrambi in Scozia, ospiti dei St Clair di Roslin.»

«Credi che i miei informatori non sappiano dov’è una persona così pericolosa? Intrattengo da tempo una fitta corrispondenza con il re d’Inghilterra al fine di convincerlo che la presenza di molti Cavalieri del Tempio in Scozia costituisce un pericolo anche per la sua augusta persona. La Francia non ha alcun interesse a invadere la Scozia per stanare un traditore.»

«Non avrei mai potuto nutrire dubbi sull’efficienza dei Vostri informatori, Vostra Maestà. Ma avete pensato al dopo? I Templari potrebbero trovare un altro rifugio. E precisamente a Piacenza, nelle proprietà di Lorenzo di Valnure, cugino di Bertrand de Rochebrune e padre di Luigi. Un giovane che, pur non avendo preso i voti, ha appreso fin troppo bene le costumanze sacrileghe dell’Ordine», continuò de Ceillac abbassando subdolamente la voce quasi non volesse che altri sentissero l’orribile segreto. «L’infame ha l’ardire di accoppiarsi con una infedele, una mora che si dice sia addirittura figlia del demonio Bafometto.»

«Che cosa proponi? Che il mio esercito oltrepassi le Alpi, scontrandosi con i Savoia-Acaia, con i Visconti di Milano e con tutti coloro che vedranno i loro territori minacciati?» Filippo IV scosse la testa e concluse: «No, non è possibile».

«Non occorre un esercito, signore. Basta agire con la stessa subdola astuzia dei Vostri nemici.»

«Cioè?»

«La Vostra augusta persona non dovrà essere assolutamente coinvolta in questa vicenda. E la Vostra incommensurabile generosità saprà ricompensare chi Vi si è mostrato fedele.»

«Non farmi perdere la pazienza. Che cosa vuoi?»

«Cinquanta uomini che raggiungano l’Italia alla spicciolata, radunandosi ai miei ordini nei pressi di Piacenza.»

«E per te personalmente?»

«Il Vostro magnanimo perdono, Vostra Maestà», rispose de Ceillac posando nuovamente il ginocchio destro a terra. «E che la Vostra augusta autorità si adoperi affinché venga concessa a me la contea degli ignobili di Valnure quando li avrò annientati.»

Palermo. 7 luglio 1999

La festa italiana a bordo della Queen of Atlantis era splendida, seppure con tonalità troppo folcloristiche. Sul palco del teatro l’orchestra eseguiva pezzi siciliani. Tutti i ristoranti e i ventuno bar servivano tranci di pizza e spaghetti, naturalmente scotti. Il clima era di grande allegria.

Ma a bordo c’erano almeno due persone che non si stavano divertendo. Il comandante Arthur Di Bono era troppo legato alle origini italiane per apprezzare che il suo Paese fosse ridotto a un concentrato di arie popolari e spaghetti scotti.

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