Marco Buticchi - Profezia

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«Niente, stavo soltanto pensando a come se la staranno cavando i ragazzi.»

Lei fece finta di credergli, ma lo conosceva troppo bene per non sapere che il problema non era quello. «Stanno di sicuro meglio adesso che non con il tuo fiato sul collo.» Quindi rise e lo accarezzò. Ma lui non rispose alla carezza: un pensiero lo rodeva come un tarlo.

Il dottor Redjia era alla sua scrivania, dove spiccava la statuetta in metallo dorato di una divinità indù. Quel giorno aveva effettuato l’unico intervento chirurgico di tutta la crociera: un bambino particolarmente vivace era caduto facendosi un taglio sotto il mento, per il quale erano bastati due punti.

Ma l’esperienza gli diceva che il pericolo era sempre in agguato, pronto a colpire quando meno ci si pensa. E l’anziano medico di origine indiana non si sarebbe mai fatto cogliere impreparato.

Stava passando mentalmente in rassegna le attrezzature del suo piccolo ma funzionale ospedale, quando bussarono alla porta.

Mediterraneo. Giugno 1313

Il giardinetto di poppa era molto angusto e scomodo. Spesso Luigi si trovava a consumare il pasto seduto sui grossi barili di acqua e di carni salate.

«Tra quanto credi che arriveremo, Aniello?» chiese.

«Due o tre giorni al massimo. Conosci l’isola di Rodi?»

«No. Parlamene.»

«È sempre stata un importante crocevia per tutti i traffici del Mediterraneo meridionale, e qualche anno fa il feudatario genovese Vignolo de’ Vignoli l’ha venduta all’Ordine dei Cavalieri dell’Ospedale di San Giovanni. La loro organizzazione è molto simile a quella dei Templari: hanno anche loro un Gran Maestro, attualmente Folco de Villaret, che ha provveduto a colonizzare l’isola. Da quando sono arrivati a Rodi, poco più di quattro anni fa, sono in corso imponenti lavori per edificare la cinta e le torri.

«I Cavalieri di San Giovanni sono stati fondati da noi amalfitani, provengono anch’essi da nobili famiglie d’Europa e sono suddivisi secondo la loro lingua. Tu devi incontrare Corneliano de’ Scalzi, l’ admiratus — ovvero l’ammiraglio — che comanda sia la loro potente flotta sia la lingua d’Italia. Bertrand de Rochebrune lo considera un amico, ma sta’ in guardia. Da quando il re di Francia ha deciso di perseguitare l’Ordine del Tempio, ho visto troppi voltafaccia e reticenze. E ricordati che la mia nave è troppo lenta per consentirci una fuga.»

Penisola di Kola. Russia. Giugno 1999

Il sommergibile nucleare Lenin , della classe Oscar, era stato un fiore all’occhiello della flotta dell’Unione Sovietica. Ma adesso, come buona parte degli armamenti dell’ex impero comunista, era quasi dimenticato in un porto militare con decine di altre navi quasi prive di manutenzione.

Lungo centocinquantaquattro metri e con una larghezza massima superiore ai diciotto, era munito di due reattori nucleari capaci di una potenza di novantottomila cavalli e quindi di spingere le sue diciottomila tonnellate alla velocità di trentatré nodi in immersione. Ma a Iosif Bykov interessava soltanto il fatto che aveva a bordo alcuni missili intercontinentali SS 20.

Il comandante, Leonid Uradov, portava una divisa da lavoro piuttosto logora con i gradi di alto ufficiale della marina russa. Accolse Bykov con un atteggiamento che intendeva essere marziale, ma che sembrava piuttosto quello di un nobile decaduto e costretto a vendere le proprietà.

«Venga con me, signor Bykov. Dentro saremo più tranquilli.»

Iosif lo seguì per la ripida scaletta che conduceva nei visceri di quel mostro marino. Gli ambienti erano angusti ma funzionali.

Si stava meravigliando di non vedere nemmeno un marinaio, quando Uradov parve leggergli nel pensiero.

«Questa meraviglia della tecnica si sta riducendo a un ammasso di ferraglia», disse mestamente. «A bordo siamo rimasti soltanto io e otto uomini, che oggi ho mandato in libera uscita per qualche ora. E pensi che l’equipaggio standard era di centotrenta uomini. Avevamo tre turni di guardia di quaranta persone. Mentre oggi mi sono rimasti sei fanti di marina e due sottufficiali dell’esercito esperti di armamenti nucleari. Gente di città, che ha forse visto il mare per la prima volta in questo cimitero dove la mia nave è stata mandata a morire.»

In plancia, davanti ai monitor di controllo c’erano diverse sedie ergonomiche con la stoffa dei braccioli lisa. Il timone sembrava la cloche di un aereo, con la possibilità di dirigere nelle quattro direzioni cardinali.

Uradov fece accomodare l’ospite nella sala da carteggio e ci mise poco a venire al dunque.

«Mi è stato detto che cosa cerca, e penso di poterle essere d’aiuto. A bordo ci sono ancora otto SS 20 perfettamente armati. Se il ritmo del disarmo continuerà a essere lo stesso, ci vorrà una quarantina di anni perché si accorgano che mancano dieci testate. Se pure se ne accorgeranno mai. Posso venderle quello che cerca, ma si tratta di roba molto pregiata, per cui anche il prezzo…»

«Quanto?» tagliò corto Iosif.

«Dieci milioni di dollari per me su un conto cifrato all’estero e altrettanti per il silenzio del mio equipaggio, che si occuperà anche di smontare le testate e sbarcarle.»

Mediterraneo. Luglio 1999

«Avanti», disse il dottor Redjia, riscuotendosi dai suoi pensieri.

«Si ricorda di me, dottore?» chiese l’uomo entrato nel suo studio.

«Sì, certo, abbiamo cenato insieme poche sere fa al tavolo del comandante. Il signor Goose, se non ricordo male. Si accomodi.»

Redjia indicò con un sorriso la sedia di fronte alla scrivania, convinto di essere alle prese con la solita indigestione, un raffreddore provocato dall’aria condizionata.

«Quattro anni fa mi è stato diagnosticato un carcinoma infiltrante di tipo anaplastico. Insomma, un tumore maligno alla vescica. Mi sono sottoposto a due operazioni chirurgiche e a diversi cicli di chemioterapia, e il male sembrava essere regredito. Ho detto ‘sembrava’, perché da alcuni giorni ho una serie di disturbi ai polmoni, e questa mattina ho emesso sangue tossendo.»

«Si sdrai, signor Goose», disse il dottor Redjia, fattosi subito serio, «e si scopra schiena e torace.»

Pochi minuti più tardi, eseguita una visita minuziosa, posò gli strumenti.

«Sono necessari alcuni test, signor Goose», sentenziò. «Analisi sofisticate, che qui a bordo non possiamo fare. È opportuno che lei sbarchi.»

Lionel scosse la testa con decisione: «Mi avevano avvertito che c’era la possibilità di recrudescenza del tumore, connessa con l’esistenza di metastasi. Se è così, non mi rimane molto da vivere, ma non voglio essere sottoposto a nuove torture. È una lotta impari. Preferisco restare qui e godere quanto rimane della mia vita. Contro il destino non si può nulla».

«È una decisione che non mi sento di biasimare, signor Goose. Ma se vuole, e per quanto possa servire, potrei farle una radiografia al torace e rilevare l’eventuale esistenza di anomalie polmonari.»

«D’accordo, dottor Redjia. Ma vorrei una promessa: qualunque sia l’esito del suo esame, non dica niente a mia moglie. È la prima vera vacanza che ci concediamo, non voglio rovinargliela.»

Rodi. Giugno 1313

Virato a dritta dopo aver bordeggiato le frastagliate coste dell’Anatolia, la nave amalfitana affrontò finalmente il braccio di mare che la separava da Rodi, spinta da un forte vento del nord.

«Guarda bene», disse Aniello a Luigi. «Vedrai una cosa che credo tu non abbia mai visto. I Cavalieri proteggono l’imboccatura del porto tenendo tesa una grossa catena tra le due estremità. Al nostro arrivo, dopo aver ben controllato dalle torri di vedetta chi siamo, la ammaineranno sul fondo.»

Luigi si portò a prua, curioso di vedere questa novità. A Ruad aveva sentito alcuni Cavalieri nordici — transitati per Costantinopoli durante il loro lungo viaggio, dopo aver raggiunto il mar Nero navigando sul Danubio — dire che anche quella mirabile città era protetta da una catena tesa tra le due estremità dell’imbocco del Corno d’Oro, ed era molto curioso di vedere come ciò avvenisse.

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