Marco Buticchi - Profezia
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- Название:Profezia
- Автор:
- Издательство:Longanesi
- Жанр:
- Год:2000
- Город:Milano
- ISBN:978-88-304-1651-2
- Рейтинг книги:4 / 5. Голосов: 1
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Luglio 1312
Il castello di Roslin era immerso nel silenzio. I festeggiamenti per il ritorno di Bertrand de Rochebrune si erano protratti per un giorno e una notte, dopo di che il Cavaliere aveva cercato la quiete necessaria per redigere la Regola del Nuovo Ordine che stava per fondare.
Quindi aveva convocato attorno a un grande tavolo ovale undici Cavalieri, tutti con la testa coperta da un cappuccio e con la mantella bianca crociata del soppresso Ordine a cui erano appartenuti.
Quando ebbero tutti pronunciato solennemente la formula del giuramento, prese la parola il barone di St Clair, appena insignito della nomina di Precettore del Nuovo Tempio.
«Nobili Cavalieri, conoscete bene i motivi che ci hanno indotto a costituirci in società segreta. A ispirarci in questa nuova e ardua battaglia saranno gli stessi principi che ci hanno indotto un tempo ad aderire all’originario Ordine Templare. Vi ricordo pertanto l’Ottava Regola dello Statuto Templare, che dice: ‘Al Maestro è dovuta la stessa obbedienza cieca che si deve a Dio’. Quindi mi inchino a te, Bertrand de Rochebrune, nostro Gran Maestro, e a te giuro fedeltà sino all’estremo sacrificio.»
«Grazie, nobile St Clair: senza di te non saremmo qui. E ringrazio anche questa terra di Scozia e il suo re, che non ha piegato la testa davanti ai poteri che hanno voluto la rovina dell’Ordine del Tempio. Purtroppo, a causa dell’assenza di Lorenzo di Valnure, in questa prima riunione il numero dei Santi Apostoli non è completo, ma mio cugino ha prestato personalmente a me il suo giuramento.
«Vi conosco uno per uno da molto tempo. Con molti di voi sono stato in battaglia. Mi è noto il vostro valore di uomini e di Cavalieri. Credo sia inutile rammentare ancora la segretezza della nostra missione, che proseguirà finché il nostro scopo non sarà raggiunto: da noi stessi o da chi verrà dopo. La prima pietra è stata posata oggi: sta in chi veste e vestirà questi abiti edificarvi sopra una chiesa: quella di Dio e degli uomini giusti. Dobbiamo combattere, fratelli. Incontreremo ostacoli persino superiori a quelli che ognuno di noi ha trovato in Terrasanta. Dobbiamo porre freno in ogni modo al progresso del Maligno e rigettarlo nel suo regno di fuoco. Soltanto così riusciremo a salvare il mondo.»
«Ma come faremo a combattere Clemente e Filippo, con le loro grandissime disponibilità di uomini e mezzi?» chiese uno dei Cavalieri.
«Con azioni rapide, prevalentemente in mare, dove possiamo contare su una flotta veloce e potente. Presto tornerò oltre l’Oceano a prendere le navi e gli uomini che vi ho lasciato. Se riusciremo a radunare tutte e diciassette le navi partite da La Rochelle, potremo affrontare qualsiasi flotta. Le quattro che ho lasciato nelle Terre d’Occidente erano in ottimo stato, e mi auguro che de Ceillac le abbia mantenute così. Quando farò ritorno dal mio viaggio, Filippo di Francia e il suo pavido servo Clemente conosceranno la bandiera di battaglia dei Templari: il teschio bianco in campo nero, sotteso da due femori incrociati.»
Accompagnato da sette guerrieri e con l’aiuto delle tenebre, Luigi era approdato nell’isola di de Ceillac, raggiungendola con una piroga sul lato opposto alla baia, e lì aveva nascosto l’imbarcazione tra la fitta vegetazione. I Tequesta, con i volti decorati dai colori di guerra, procedevano con cautela e in silenzio, ma decisi.
Risaliti i rilievi al centro dell’isola, avevano studiato dall’alto la fortificazione edificata nella gola di roccia: sembrava inespugnabile. Da una torre sul lato destro una sentinella in costante stato di allerta dominava con lo sguardo la sconfinata distesa dell’Oceano. Due pareti del forte erano costituite dalle rupi rocciose. All’interno della palizzata si vedevano alcune case di legno.
Luigi individuò prima l’alloggio di soldati e marinai, un edificio basso e lungo, e poi, a poca distanza, quello dei sergenti, entrambi a ridosso dell’imponente rupe di roccia vulcanica. La dimora di de Ceillac era probabilmente sul lato opposto. Forse una delle tre più piccole, a pochi passi dalla palizzata.
Quando, illuminata dai bagliori dei fuochi, apparve la figura di una donna che usciva da una delle case, tenuta per un braccio da un uomo, si sentì prendere dall’angoscia. Nonostante l’oscurità e la distanza, aveva riconosciuto il malvagio Denis, e la pelle della donna era bruna. La poveretta camminava a testa china, come oppressa dal greve peso della sua situazione. All’angoscia si sostituì il furore: era probabilmente condotta all’alloggio di de Ceillac per essere strumento del suo piacere.
Ma Luigi vide anche verso quale casa erano diretti i due. Il rumore sordo del catenaccio che serrava l’uscio alle spalle della prigioniera arrivò distinto sino a lì.
Doveva agire, prima che fosse troppo tardi.
Patron Magri, comandante della nave ammiraglia, era accanto al navigatore, cui impartiva ordini con voce ferma. Il marinaio aveva due braccia scultoree, temprate dalla barra del timone. Al collo, dentro un sacchetto di pelle, portava un frammento di magnetite contro cui strofinare l’ago della bussola nel caso che si fosse demagnetizzato.
La Scozia era ormai lontana. Non la vedevano più da quarantadue giorni, e ormai le scorte di viveri e acqua cominciavano a scarseggiare. L’Oceano era increspato da una leggera brezza. Le vele erano spiegate, e la nave avanzava maestosa e agile, leggermente sbandata a dritta.
Il nuovo Gran Maestro si era chiesto a lungo se fosse opportuno partire per un viaggio così rischioso con due sole navi. Ma aveva finito con il preferire quella soluzione a un convoglio: era meglio che l’esigua forza navale di cui disponeva restasse al sicuro nei porti della Scozia.
Recuperare la flotta e gli uomini affidati a de Ceillac non era un’impresa difficile, al di là dei rischi della traversata.
Ma la tempesta cominciò a montare nella notte, per scatenarsi terribile alle prime luci dell’alba.
Roma. Giugno 1999
«Non si può darle torto, dottor Marradesi», disse Gerardo di Valnure, interrompendo il silenzio meditabondo che era calato nel laboratorio. «Ma ci troviamo comunque a un nuovo punto morto.»
«Niente affatto», obiettò Sara. «Dobbiamo scoprire chi si attribuisce ancora il ruolo di custode del segreto di cui parlava Toni. Non dimentichiamo che cos’è successo al povero Giacomo e sarebbe potuto capitare anche a te ad Akko. Le tue, anzi le nostre , ricerche hanno infastidito qualcuno. Non c’è più dubbio. Qualcuno molto potente, capace di uccidere e talmente fanatico da uccidersi perché il segreto rimanga tale. Il legame tra l’antichità medievale e questi misteriosi personaggi sembrerebbe il cordoncino rosso con il filamento d’oro e quel singolare nodo marinaro. E uno simile è stato trovato anche vicino al rogo che quasi distruggeva la Sindone. Un segnale, forse.»
«È vero. Se la Sindone fosse davvero l’effigie del Gran Maestro de Molay, potrebbe rappresentare il simbolo della vergogna dell’Ordine Templare. Una reliquia da distruggere per cancellare l’infamia e riportare il Tempio agli antichi splendori», convenne Gerardo.
A pochi chilometri di distanza, nella villa sull’Appia Antica, era nuovamente riunito il Gran Consiglio dell’Ordine.
Il Gran Maestro levò le braccia al cielo. Dalle fessure del cappuccio s’intravedevano due occhi gelidi e gonfi di odio.
«Siamo finalmente pronti, fratelli. Il segnale è stato dato da tempo, anche se la sorte ha voluto che l’ultimo simbolo del nostro disonore non fosse distrutto dalle fiamme. È ora di uscire dalla secolare clandestinità per impadronirci del mondo.»
Agosto 1312
Alvise Magri corse verso poppa con un’ascia. La nave rollava paurosamente e le onde superavano la murata, frangendosi sui ponti e abbattendosi con violenza sui marinai. Di notte le due navi procedevano assicurate l’una all’altra da una robusta cima, perché l’oscurità non facesse loro perdere il contatto.
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