Marco Buticchi - Profezia

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Non poteva vederlo in mare, ma aveva sentito de Ceillac urlare: «Lasciateli perdere, imbecilli, ormai sono fuori tiro. Ciascuno al suo posto di battaglia. A quei due bastardi penseranno gli squali».

Marzo 1999

Paola era in vestaglia di raso, ma ancora allungata sul letto. Una pausa nelle sue tournée le aveva consentito di venire qualche giorno al castello di Valnure. Il telefono squillò mentre il padrone di casa si stava radendo.

«Puoi rispondere tu, per favore?» le gridò Gerardo dal bagno.

«È una certa Sara Terracini. Le dico di richiamare?» lo informò dopo qualche istante la donna.

«No, no, vengo subito», disse lui, pulendosi con un asciugamano il viso insaponato.

«Spero di non disturbarti», si sentì dire in tono ironico dalla giovane romana.

«Che cosa dici? Non potresti mai disturbarmi.»

«Sarà, sarà. Magari un giorno o l’altro mi spieghi a chi appartiene la voce da pantera che mi ha risposto. Comunque, volevo informarti di alcune cose che ho appena saputo su quella famosa questione.»

«Di già? Dimmi.»

«Non credo che sia opportuno parlarne a voce. Ti mando un messaggio criptato via posta elettronica, e contemporaneamente ti spedisco via corriere un dischetto con la chiave per decifrarlo.»

«Quante precauzioni, Sara.»

«Credo siano opportune.»

Sara chiuse la comunicazione con un rapido saluto.

Dopo qualche istante Gerardo sentì bussare, e sulla porta si affacciò Giacomo che reggeva sulle braccia uno smoking perfettamente stirato e una camicia candida.

«A che punto sei, Paola?» chiese lui.

«Ancora un attimo», rispose la cantante.

Quella sera il conte di Valnure era invitato a una cena di beneficenza a Milano.

«Chi mi conosce», disse con voce sicura Oswald Breil, «sa bene che non amo stare seduto dietro una scrivania. Sono un uomo d’azione. Quindi, in tutta sincerità, non so se sarò all’altezza di una responsabilità di governo. Ma vi assicuro che, come sempre, ci metterò tutta la mia onestà e tutto il mio impegno.»

La platea della riunione elettorale, organizzata nella sala conferenze del Carlton di Tel Aviv, si alzò e applaudì calorosamente. E finalmente Breil parve tradire un attimo d’imbarazzo. Ma il suo sguardo acuto aveva già valutato il numero dei presenti: gli elettori favorevoli alla sua candidatura stavano aumentando.

Quando la cena per raccogliere fondi si concluse, lasciò la sala dopo avere stretto decine di mani. Raggiunta la sua camera, si abbandonò sul letto. Era stanco, ma sapeva che la tensione della serata gli avrebbe reso difficile prendere sonno.

Quindi tornò ad alzarsi, prese il computer portatile dalla sua custodia e, dopo averlo collegato al telefono, aprì il programma di videoconferenza, nella speranza di trovare Sara Terracini ancora in ufficio. Ci passava praticamente la vita, povera ragazza.

Proprio allora Sara aveva appena terminato di spedire a Gerardo il messaggio criptato e stava per spegnere il computer. Lo scampanellio della macchina la bloccò.

Vide comparire sul monitor la figura sorridente di Oswald Breil.

«Benedetta e santa donna. Ero quasi sicuro di trovarti, ma, perdiana… Dalle tue parti dovrebbero essere le due di notte.»

«Uffa, Oswald, ho avuto da fare. Non ti succede mai? Caspita, sei vestito da pinguino. Dove diavolo sei?»

«In un albergo di Tel Aviv. Ho appena concluso una riunione elettorale e sono distrutto. Ti ho chiamato per farmi confortare.»

«Carino, il duro politico che ha bisogno di conforto.»

«Carino lo sono senz’altro, bella mia, ma ci vorranno mesi perché impari a muovermi nelle sabbie mobili della politica.»

«Ma va’. Basteranno pochi giorni e nessuno riuscirà a tenerti dietro. I terreni insidiosi sono quelli che ti piacciono di più.»

«Be’, prima di tutto devo essere eletto, e non è facile. Comunque mi hai già confortato. E le tue ricerche? Procedono?»

«Ho appena finito d’informare il mio amico delle tue congetture.»

«Mi raccomando, usa la massima precauzione, e dillo anche a lui. Se quello che immagino è vero, su un terreno davvero insidioso ci siete voi.»

«Ho seguito a puntino i tuoi insegnamenti.»

«Brava. Sei la migliore delle mie allieve.» E il volto dell’omino si aprì in un caldo sorriso.

Gerardo di Valnure guidava con mano sicura, e la vecchia Maserati Mistral restaurata rispondeva docilmente ai suoi comandi.

Seduta accanto a lui, Paola tese la sinistra ad accarezzargli la nuca. Con un vago senso di panico, lui considerò che le si stava affezionando. Preferì pensare alla notte che li aspettava.

Raggiunsero il castello in poco più di quaranta minuti, e Paola gli si strinse mentre salivano le scale. Non appena furono entrati, Gerardo notò con stupore che la luce del suo studio era accesa. Liberatosi con delicatezza dalla stretta di Paola, vi si diresse rapidamente.

Giacomo era sulla poltroncina di fronte al computer. Sulla sua fronte si stagliava netto il foro di entrata di un proiettile. Dalla ferita usciva un rivolo di sangue rappreso, il viso contratto in una smorfia di terrore.

Ottobre 1311

Proprio quando le forze stavano per abbandonarlo, Luigi avvertì finalmente la sabbia soffice sotto i piedi. Il poco fiato rimasto gli bastò a stento per l’ultimo sforzo; sentendosi addirittura mordere i muscoli dalla stanchezza, si trascinò sulla spiaggia bianca e la superò, portando il piccolo al sicuro tra la vegetazione. Poi gli si lasciò cadere accanto, esausto, ansimando penosamente.

Ormai lontana sul mare, Shirinaze era rientrata nell’alloggio del comandante e si era buttata sul letto. Ma i suoi occhi erano asciutti. Il modo in cui de Ceillac aveva abusato di lei l’aveva riempita di un sordo furore che vietava le lacrime.

Dalle urla di rabbia dei suoi carcerieri aveva capito che Luigi e il bambino si erano salvati. Tanto le bastava, adesso poteva anche morire. Ma non subito. C’era un debito che qualcuno doveva saldare.

Intanto Luigi aveva adagiato il bambino sotto una mangrovia e si era seduto accanto a lui per riprendere fiato. Da quando aveva raggiunto la salvezza, non aveva più prestato attenzione alla battaglia.

Gli indigeni furono loro addosso quasi senza che se ne accorgesse.

Luigi riuscì a gettarsi sul corpo del figlio per proteggerlo, sentendo la punta di una lancia contro il costato. Chiusi gli occhi, attese il colpo di grazia, pregando Dio che almeno il piccolo fosse risparmiato.

Ma all’improvviso sentì un indigeno gridare qualcosa, e immediatamente la pressione della punta della lancia venne meno.

Bertrand era solo in una maleodorante segreta nei pressi della cattedrale di Vienne. Non era prostrato tanto dalla prigionia, quanto dal senso d’impotenza da cui si sentiva bruciare sempre più con il passare dei giorni. A poca distanza da lì i suoi confratelli stavano per subire una condanna ingiusta, e non poteva fare niente per impedirlo.

Le guardie lo sorvegliavano a vista, ma ai turni di notte erano state assegnate le più giovani, con cui riusciva a scambiare qualche parola. Con una, in particolare. Sui vent’anni, era stata arruolata nella guardia del papa da soli sei mesi. Trattava Bertrand con un singolare tono di deferenza. Si avvicinava spesso allo spioncino e, attraverso l’inferriata, lo informava sull’andamento del processo.

«Sembra quasi che papa Clemente temporeggi, che aspetti qualcosa prima di decretare la fine dei Cavalieri del Tempio», gli disse una sera.

«Dov’è il re di Francia?»

«Si trasferirà da Lione a Vienne in primavera.»

«Ecco che cosa sta aspettando il papa. L’arrivo del suo prediletto figliolo. Soltanto allora sapremo quale destino ci attende.»

«So che non ne parlerete mai con nessuno», sbottò inopinatamente il ragazzo, parlando a voce bassissima e premendo la faccia contro l’inferriata.

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