Marco Buticchi - Profezia

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‹SINGOLARE COINCIDENZA.›

‹E DI GRANDE RILIEVO PER LE TUE RICERCHE.›

‹I TEMPLARI?›

‹ESATTAMENTE. ALCUNE IPOTESI RICONDUCONO LA SINDONE A JACQUES DE MOLAY, L’ULTIMO GRAN MAESTRO TEMPLARE. A SEGUITO DELLE TORTURE SUBITE, FU COLPITO DA QUELLA CHE IN MEDICINA VIENE CHIAMATA ACIDOSI METABOLICA, IN ALTRE PAROLE UN ECCESSO DI PRODUZIONE DI ACIDO LATTICO DOVUTA A TRAUMI FISICI. QUESTO ECCESSO DI SOSTANZE ACIDE AVREBBE INTRISO IN MANIERA INDELEBILE IL SUDARIO IN CUI L’INQUISITORE IMBERT AVEVA ORDINATO DI AVVOLGERLO ANCORA IN VITA. QUESTO SPIEGHEREBBE ANCHE LA DATAZIONE MEDIEVALE — PER L’ESATTEZZA TRA IL 1260 E IL 1390 — DELLA SINDONE, RILEVATA DALLE ANALISI CON IL CARBONIO 14.›

‹NON FARMI STARE SULLE SPINE. CONCLUSIONI?›

‹MAH, A DIRE IL VERO, PIÙ CHE DI CONCLUSIONI SI TRATTA DI CONGETTURE. O SONO DAVVERO SEMPLICI COINCIDENZE, O DIETRO QUEL NODO MARINARO C’È QUALCOSA. ›

‹CHE COSA?›

‹CHISSÀ, FORSE L’ESISTENZA DI UNA SETTA TANTO POTENTE DA AVER ACCESSO ALLE PIÙ ALTE SFERE VATICANE, E TALMENTE SEGRETA CHE NEMMENO I PIÙ EFFICIENTI SERVIZI SEGRETI DEL MONDO NE SONO A CONOSCENZA. ›

In quello stesso momento, sulla Via Appia, era in pieno svolgimento una riunione.

«Siamo pronti, Fratelli», disse l’incappucciato a capo del tavolo, rivolto ai dodici convenuti, anch’essi incappucciati. «Siamo pronti a scacciare il Maligno dal Trono che ci spetta. Siamo pronti a punire chi ha rinnegato il Cristo. Milioni di peccatori moriranno, e potremo ricostruire il mondo nel nome del Giusto.»

La volta della sala era dipinta di blu e ornata da alcune stelle dorate, una delle quali brillava più delle altre: quella che indicava l’Occidente, e che gli antichi chiamavano Merika.

Ottobre 1311

Il soffitto della stiva era talmente basso che né Luigi né Shirinaze riuscivano a stare in piedi. Il rollio della nave provocava loro un costante stato di malessere. Ogni giorno venivano calati dal boccaporto una ciotola di minestra e pochi sorsi d’acqua, che destinavano quasi completamente al figlio.

Nel tenebroso fetore risuonò improvvisa la voce di Denis, seguita da un riso sguaiato: «Tu, conte, resterai qui con il tuo piccolo bastardo a meditare, mentre la donna è richiesta sul ponte».

Spinte dalla disperazione, le braccia di Luigi scattarono verso il volto dell’aguzzino; le mani si strinsero con violenza sul collo. Il giovane avvertì distintamente le cartilagini cedere sotto le sue dita.

Ma subito dopo sentì un violento colpo alla nuca, e tutto fu buio. Shirinaze fu trascinata nell’alloggio di de Ceillac.

«Penso che la salute del tuo uomo e di tuo figlio ti stiano a cuore, donna», le disse lui, fissandola biecamente.

Shirinaze si sentì prendere da una profonda disperazione: «Vi supplico, in nome di Dio…» implorò.

«Quale Dio? Il nostro o quello degli infedeli come te? Comunque, le implorazioni non servono a niente. Se vuoi salvare la vita dei tuoi cari, dovrai essere molto, molto accondiscendente», ribatté de Ceillac con un lampo perverso negli occhi.

Incrociando lo sguardo di lui con il suo, da cui tralucevano tutto il ribrezzo e l’odio che provava, ma senza una sola parola, Shirinaze lasciò cadere a terra i pochi indumenti logori e rimase nuda, mentre il respiro di de Ceillac si faceva affannoso.

Disgustata dall’umiliazione e impotente, sentì le mani sfiorarle la pelle, le rozze dita violarla. Quando il peso dell’uomo le fu sopra, riuscì a rivolgere un ultimo pensiero al marito e al figlio e non seppe più nulla.

Clemente V diede inizio con solennità al Concilio di Vienne, a cui non presenziava però alcun sovrano. La presenza delle truppe francesi ammassate a Lione gravava minacciosa sui lavori. Filippo il Bello sembrava volerne sorvegliare l’andamento, pronto a intervenire se le decisioni degli ecclesiastici si fossero rivelate difformi dalla sua volontà: l’annientamento dell’Ordine del Tempio. E Clemente V sembrava chiaramente orientato ad assecondarlo.

Bertrand de Rochebrune non tardò a rendersi conto che St Clair aveva visto giusto: poteva infatti contare soltanto su seicento uomini, ridotti allo spettro dei Cavalieri che ricordava. Erano miseri, sbandati, impauriti. Con loro non sarebbe mai stato possibile assaltare la città, per cui decise di tentare un’altra strada.

Le volte della cattedrale di Saint Maurice erano alte. L’assemblea plenaria del Concilio sedeva sotto la grandiosa vetrata di fronte all’ingresso principale. Nell’elencare i capi di accusa contro l’Ordine, il relatore ebbe un attimo di smarrimento. I sette Templari apparvero tra il silenzio generale.

«Chiedo sia resa giustizia ai miei confratelli, imprigionati e infamati da accuse prive di fondamento», si levò improvvisa dalla folla la voce di Bertrand de Rochebrune. «In nome di Dio e dei giusti, siano ascoltati da una giuria, e le loro confessioni non vengano estorte con la tortura. Lo chiedo all’Apostolo di Cristo a cui abbiamo giurato fede imperitura e per il quale molte delle nostre vite sono state sacrificate.»

Seguì un istante di silenzio stupefatto. Molti dei vescovi presenti dissentivano con la decisione di sopprimere l’Ordine. Ma, ripresisi dallo stupore, i prelati fedeli a Clemente V invocarono a gran voce le guardie: «Catturateli. Hanno osato interrompere il Sacro Concilio ed entrare in una chiesa con le armi in pugno».

«Nei boschi attorno alla città sono appostati duemila Cavalieri del Tempio», mentì Bertrand mentre le guardie li accerchiavano. «Non vogliamo lo scontro. Veniamo in pace a chiedere che sia fatta giustizia.»

Lo strepito dagli scranni dei prelati si alzò ancor più forte, isterico: «Disarmateli e imprigionateli».

Bertrand sapeva che ogni resistenza sarebbe stata inutile. Fece un solo cenno, e i suoi seguaci deposero le armi senza opporre resistenza.

Il ritmo di voga scandito dal tamburo in coperta si andava facendo sempre più veloce. Gli occhi di Luigi furono feriti dallo spiraglio di luce che filtrava attraverso il boccaporto. Evidentemente distratto dall’approssimarsi di un attacco, Denis si era scordato di chiudere dall’esterno la botola.

Luigi tentò di liberarsi dalle catene che gli cingevano le caviglie. Già da tempo aveva notato sul fondo della stiva una barra di ferro dimenticata e, strisciando sulla schiena, riuscì a prenderla. Inseritala nel cavallotto, si provocò profonde ferite alle gambe e dovette stringere la lingua tra i denti per non gridare, ma finalmente riuscì a scalzarlo. Era libero. Sentì rinascere in sé forza e determinazione.

Afferrò il piccolo per la vita e si appostò vicino al boccaporto, in attesa che lo scontro avesse inizio. Non appena sentì le grida di battaglia, spalancò il pertugio. La luce accecante lo ferì agli occhi, costringendolo a chiuderli qualche istante, ma quando riuscì a riaprirli, vide che la nave era accerchiata da decine di piroghe cariche d’indigeni armati di arco e frecce.

«Il prigioniero sta fuggendo», sentì gridare alle sue spalle, ma era troppo tardi: superata la murata con un balzo, scomparve sott’acqua con il figlio.

Quando riemersero, furono bersagliati da un lancio di frecce, ma non molto nutrito. Sulla nave erano troppo impegnati nella battaglia. Luigi continuò a nuotare furiosamente e, quando capì di essere fuori tiro, si voltò verso la nave, tenendo la testa del bambino fuori dall’acqua e nuotando a ritroso con le gambe per tenerla d’occhio. Con profondo sollievo vide che nessuno si metteva al suo inseguimento.

Sulla nave, Shirinaze era stata lasciata sola nell’alloggio del comandante e, sentendo le grida degli assalitori, era riuscita ad affacciarsi cautamente sulla porta dell’alloggio. Aveva visto Luigi gettarsi oltre la murata con il bambino e pregato fervidamente che riuscisse nella sua impresa.

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