Marco Buticchi - Profezia

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Quale attività di riabilitazione migliore, una volta tolto il gesso, che passeggiare tra i boschi ai piedi delle Alpi Marittime, resi balsamici dalla vicinanza del Mediterraneo?

Un paio di settimane più tardi, un sole incredibilmente luminoso rendeva trionfale la giornata al Grand Hotel de Rochebrune.

Le dita di Gerardo di Valnure correvano veloci sulla tastiera del computer portatile che teneva sulle ginocchia. Stava raccogliendo i suoi appunti davanti a una vetrata da cui si vedeva in tutta la sua magnificenza il Pic de Rochebrune, quando si sentì rivolgere la parola da una voce sensuale: «Mi hanno detto che è italiano anche lei».

Giratosi, Gerardo vide una donna in pantaloni attillati e giacca trapuntata nera, con collo di pelliccia. I capelli neri erano tagliati alla maschietta, e gli occhi azzurri sembravano capaci di perforare qualsiasi difesa.

«Certo, sono italiano», rispose, alzandosi con qualche fatica e porgendo la destra. «Gerardo di Valnure.»

«Piacere. Sono Paola Lari, che però è soltanto un nome d’arte. Il mio vero cognome è Larizza. Sono cantante, e questa sera mi esibirò a Briançon. Posso sedermi qui? Sempre che non la disturbi.»

«No di sicuro», rispose Gerardo, spegnendo il computer. «Stavo soltanto prendendo qualche appunto ispirato dalla tranquillità di questo luogo.»

La conversazione si rivelò estremamente piacevole, tanto che alla fine i due si davano del tu, e Gerardo assicurò la sua presenza allo spettacolo di quella sera, dove arrivò puntuale.

Paola Lari era una cantante veramente notevole, e con un repertorio tale da consentirle, con i numerosi bis richiesti, d’intrattenere il pubblico fin quasi a mezzanotte.

Lasciato finalmente il palco, lo raggiunse al suo tavolo.

«Un tuo parere, signor conte?»

«Hai una voce magnifica, mi hai fatto letteralmente venire i brividi. Ma come fai a sapere che sono conte?»

«Intuito femminile?» rispose la bellissima donna, fissandolo con due occhi di fuoco.

Quando finalmente riuscì a lasciare la cantante e a tornare in camera sua, Gerardo ebbe la peggiore delle sorprese. Tutto era in un disordine spaventevole, e il computer era sparito.

Poche ore più tardi lo stesso computer era in una villa dell’Appia Antica, posato su un tavolo.

«Abbiamo provato a violare le tre password di protezione», disse in tono inquieto l’uomo che lo aveva portato lì, «ma non c’è stato niente da fare: i segreti che nasconde restano lì dentro.»

«Non so di quali segreti possa essere in possesso questo Gerardo di Valnure», replicò il Gran Maestro, storpiando il nome con un brutto accento americano, «ma è molto improbabile che lo portino a noi. In ogni caso aveva ragione Sonia: è un vero osso duro.»

«Provochiamo un altro incidente?»

«No. Se ha scoperto qualcosa, avrà di sicuro informato qualcuno, e un secondo incidente potrebbe alimentare troppi sospetti. Vediamo che cosa fa ancora e continuiamo a tenerlo sotto stretta sorveglianza.»

Parigi. 1306

Era scoppiata improvvisa una rivolta contro il re Filippo IV, provocata dalle sue inique gabelle, per le quali tutti ormai lo chiamavano il «re falsario». Il sovrano aveva trovato rifugio nel Tempio, la fortezza più sicura di Parigi.

Nel corso di questo suo soggiorno forzato, Filippo IV si aggirò ovunque, manifestando quella che poteva sembrare soltanto un’innocua curiosità. Ma così facendo ebbe modo di vedere il tesoro del Tempio, custodito in una grande stanza blindata al centro dell’edificio.

Bertrand de Rochebrune aveva però notato con quanto interesse Filippo osservasse ogni particolare, quasi volesse imprimerselo nella memoria, e, sapendo ciò che sapeva, il comportamento gli era apparso altamente sospetto. Si affrettò pertanto a inviare un messaggio al Gran Maestro, a Cipro.

« Signore », scrisse, « mentre vi scrivo queste righe il Re di Francia è ospite del Tempio, dove manifesta una curiosità che mi inquieta, così come mi irrita il suo tono quasi da padrone di casa. Mentre la Regola impone che le uniche autorità che dobbiamo riconoscere sono la Vostra e quella del Papa.

« Purtroppo il Tesoriere ha commesso l’imprudenza di mostrargli le stanze del tesoro, e ho personalmente visto il suo sguardo illuminarsi di un lampo di cupidigia. Temo che l’oro lo abbia abbagliato: i suoi esausti forzieri ne trarrebbero immenso vantaggio. Contrariamente a quanto vi ho scritto in precedenza, credo dunque che non sia opportuna una Vostra venuta a Parigi. Sono convinto che Filippo stia architettando qualcosa per impadronirsi dei nostri beni, e la Vostra presenza qui potrebbe essere pericolosa per Voi. Fortunatamente mi sono fatto buoni amici nella cerchia del Re e ho ricevuto la solenne promessa che qualsiasi eventuale atto contrario al Tempio mi sarà tempestivamente segnalato. Devotamente Vi saluto e rimango in attesa di Vostre istruzioni. »

Il breve soggiorno del sovrano gli aveva infatti permesso di stringere una solida amicizia con Jean Marie de Serrault, un giovane nobile la cui famiglia era molto vicina a Filippo, ma che non ne condivideva le idee, al punto che nel suo palazzo si svolgevano frequenti riunioni che molto poco sarebbero piaciute al re e ai suoi lacchè.

Il giovane conte aveva perso da tempo il padre, e alla gestione dei beni di famiglia provvedeva l’energica e coraggiosa madre. De Serrault aveva un fisico fragile, a cui corrispondeva forse un equilibrio instabile della mente. Ma in lui Bertrand trovò una delle poche persone di cui potersi fidare.

Alla fine di luglio, però, un altro evento inquietante lo indusse a scrivere una nuova lettera al Gran Maestro.

« Ancora una volta, signore, sono costretto a riferirvi un fatto che suscita in me apprensione e sgomento. La mattina del 22 luglio gli sgherri di Filippo IV hanno incarcerato in un solo giorno tutti gli ebrei stanziati sul territorio francese, confiscando ogni loro bene onde rimpinguare le magre casse del sovrano. Vi scongiuro, signore, non tornate. Ho la netta sensazione che presto toccherà ai Cavalieri del Tempio. Qualsiasi cosa accada a Parigi, Cipro è un luogo sicuro per riorganizzarsi. Dal canto nostro, sapremo vendere cara la pelle. »

La riposta arrivò due mesi più tardi. Nonostante le raccomandazioni di Bertrand, Jacques de Molay aveva deciso di aderire all’invito di Clemente V e si apprestava a partire per Parigi. Era convinto che Filippo IV avesse aderito al suo progetto di fusione tra l’Ordine del Tempio e quello dei Cavalieri dell’Ospedale di San Giovanni. E comunque, aggiungeva nella sua lettera, era pronto ad affrontare qualsiasi traversia e accusa.

Non poteva purtroppo sapere che dietro l’invito del pontefice c’era l’abile regia di Guillaume de Nogaret, astuto mestatore del re di Francia. Quello stesso Nogaret che era entrato ad Anagni e aveva preso in ostaggio Bonifacio VIII.

Jacques de Molay sbarcò in Francia con un seguito di sessanta Cavalieri e un tesoro di centocinquantamila fiorini d’oro. Assai più di quanto sarebbe servito per rimettere in sesto le finanze del re.

Castello di Valnure. 21 dicembre 1998

«Residenza del conte di Valnure», rispose impeccabile Giacomo.

«Sono Paola Lari. Vorrei parlare con il signor conte.»

Pochi istanti più tardi Gerardo era in linea con la cantante.

«Che piacere sentirti, Paola.»

«Mi avevi detto di chiamarti non appena fossi tornata dalla Francia. Mi è spiaciuto molto per quello che ti è successo in albergo. Hai avuto notizie della roba sparita dalla tua camera?»

«Era soltanto un computer portatile con una parte dei miei appunti. Comunque il ladro non saprà che cosa farsene, visto che è protetto da una serie di password insuperabili.»

«Spero che il tuo lavoro non sia andato perduto.»

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