Marco Buticchi - Profezia

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«Questo Saran Nature», disse, «scende come l’acqua, ma come l’acqua stimola certi bisogni. Vi prego di scusarmi un solo istante.»

Mentre si alzava, Iosif lo scrutò con gli occhi socchiusi: era un omino di scarsa statura, ma aveva lo sguardo di un cobra. No, di lui non ci si poteva fidare.

Pochi istanti dopo che Boris Semënov si era allontanato, nel salottino entrarono i due camerieri con piatti coperti da coprivivande d’argento.

Iosif avvertì immediatamente il pericolo. Si gettò sul più vicino, travolgendolo, e si buttò fuori dal salottino proprio mentre il secondo cameriere scoperchiava il piatto. Fece appena in tempo a urlare: «Buttati giù, Chalva, giù!» che la pistola con silenziatore del falso cameriere, estratta dal coprivivande, fece fuoco centrando Tanzic.

Tenendosi piegato in due, Iosif si precipitò verso il vaso dove aveva nascosto la pistola, letteralmente pregando che non l’avesse trovata qualche inserviente. Intanto i due assalitori si erano precipitati alla porta del salottino e brandivano l’arma spalla contro spalla, scrutando in ogni direzione.

«Eccolo!» gridò uno di essi, indicando Iosif che cercava riparo dietro un mobile della sala centrale.

Drostin sentì i colpi secchi e vide le schegge di legno saltare a poca distanza dal suo volto. Il vaso con la pistola nascosta era a poca distanza. Coperto dal mobile, allungò il braccio e, toccando l’acciaio, si sentì letteralmente sciogliere dal sollievo. Impugnò la pistola.

Nella sala regnava il caos. Gli altri clienti stavano cercando riparo ovunque, rovesciando tavoli e sedie, le donne strillavano.

Iosif rimase immobile dietro il suo riparo, mentre i due falsi camerieri, convinti che lui e Tanzic non fossero armati, avanzavano allo scoperto. Li centrò in pieno.

Quando tornò a precipizio nel salottino, Chalva giaceva riverso sul fianco sinistro; al centro della sua fronte si vedeva un foro rosso dai contorni bruciacchiati. Era morto.

Iosif senti sparare anche in strada. I loro uomini erano sicuramente stati attaccati: Semënov aveva organizzato tutto alla perfezione. Ma non poteva rimanere lì dentro. Uscì all’esterno.

Quattro dei suoi giacevano a terra, gli altri si erano nascosti dietro la loro auto e cercavano di rispondere al fuoco che li stava bersagliando. Iosif riuscì a raggiungerli.

«Presto, dobbiamo andarcene prima che ci ammazzino tutti!» gridò aprendo la portiera dell’auto e buttandosi sul sedile di guida.

La pioggia di proiettili investì la fiancata opposta, ma il motore rispose docilmente al comando. L’auto partì con un tremendo stridore di gomme.

«Dov’è Chalva?» chiese infine uno degli uomini.

«Lo hanno ammazzato», rispose seccamente Iosif. Non aggiunse che Semënov l’avrebbe pagata cara. Non ce n’era bisogno. Quegli uomini lo conoscevano bene.

PARTE SECONDA

GLI UOMINI VESTITI DI FERRO

4

Ricostruzione del bassorilievo su pietra rinvenuto a Westford Massachussets - фото 2
Ricostruzione del bassorilievo su pietra rinvenuto a Westford (Massachussets)

San Giovanni d’Acri. 5 aprile 1291

IL nuovo sultano d’Egitto al-Ashraf Khalil, figlio del defunto Qalawun, stava disponendo l’accampamento sotto le mura dell’ultimo baluardo cristiano in Terrasanta. Tra pochi giorni avrebbe sferrato il primo di una lunga serie di attacchi. Ogni ponte levatoio di San Giovanni d’Acri era stato alzato, anche quelli verso il porto, unica via di scampo per i cristiani. A parte i civili, le milizie assediate ammontavano a diecimila uomini, compresi ottocento Cavalieri, tra Templari, Ospedalieri e Teutoni, mentre al-Ashraf disponeva di centomila guerrieri.

Guillaume de Beaujeu, Gran Maestro del Tempio, osservava le manovre dei mori dall’alto delle mura. Sembrava quasi che non avessero fretta. Ma Guillaume sapeva che dietro quella lentezza si nascondeva una strategia. Lo avevano infatti informato che al-Ashraf stava facendo affluire molte macchine da guerra, di cui però non si vedeva ancora traccia.

«Sono almeno dieci volte più numerosi di noi», commentò al suo fianco Bertrand de Rochebrune, giovane e valente Cavaliere.

«Il Signore ci aiuterà.»

Guillaume era convinto che il papa non li avrebbe abbandonati alla loro sorte, vista l’importanza di quella roccaforte cristiana in Terrasanta. Ma, dopo la caduta di Tripoli, i possedimenti cristiani si erano ridotti a San Giovanni d’Acri e a due castelli fortificati sulla costa. E papa Niccolò IV sarebbe forse stato costretto a rinunciarvi.

Il ventenne Bertrand de Rochebrune era Cavaliere Templare da un anno. Vestiva con orgoglio la tunica crociata ed era pronto a sacrificare la vita. I capelli corvini spuntavano dall’elmo sopra una barba ancora rada. Era alto, atletico e abilissimo con la spada.

«Bertrand, provvedete che donne e bambini siano pronti per evacuare in qualsiasi momento», gli ordinò il Gran Maestro. «Poi scegliete cinquanta fanti e quattro sergenti. Proteggerete un primo contingente di civili, qualora si riesca a farli fuggire dalla città.»

«Permettete, signore, preferirei rimanere al vostro fianco e combattere fino all’ultimo.»

Sul viso di Guillaume de Beaujeu comparve un’espressione contrariata. «Oltre alle donne e ai bambini, abbiamo molte cose da mettere in salvo. Saranno affidate a voi, per una missione che reputo della massima importanza», tagliò corto in un tono che non ammetteva repliche.

Piacenza. Castello di Valnure. Ottobre 1998

Le prime foschie autunnali nascondevano le antiche dimore padronali tra i campi perfettamente coltivati. Il castello dei conti di Valnure sembrava un miraggio dai contorni ovattati.

La torre principale proteggeva il lato orientale, l’unico un tempo esposto agli assalti, essendo gli altri tre lambiti dal corso di un fiume. All’interno della prima cinta di mura c’era l’antico borgo che, totalmente ristrutturato, adesso ospitava due ristoranti, un’enoteca e diversi appartamenti concessi in affitto. Il castello vero e proprio era protetto da un’ulteriore cinta muraria alta più di dieci metri. Il tutto in uno stato di conservazione ammirevole. Aiuole ben curate circondavano le basi di alberi secolari. Le visite guidate si susseguivano all’interno del villaggio medievale come nel castello. Nelle sei ore giornaliere di apertura, tre guide gestivano un flusso pressoché costante di visitatori.

L’abitazione di Gerardo di Valnure era di grande signorilità, e vi regnava una sorta di caos organizzato, in cui sembrava che soltanto il proprietario sapesse orientarsi. Il salotto era letteralmente invaso dai libri. In un angolo c’era un computer di ultima generazione con collegamento a Internet.

Gerardo aveva posato sul letto a baldacchino due borse da viaggio e si aggirava in cerca del necessario per il suo viaggio in Terrasanta.

«Sei anni», borbottò. Sei anni alla ricerca di un indizio mai trovato. Il mistero del nodo rimaneva tale, e l’antica iscrizione gli rodeva la mente come un tarlo.

«Posso essere d’aiuto, signore?», chiese con deferenza Giacomo, l’anziano maggiordomo.

«No, grazie. Ho molta fretta: l’aereo parte da Milano fra tre ore. Devo sbrigarmi, se non voglio perderlo.»

«Posso chiedere per quanto tempo il signor conte sarà assente?»

«Non lo so, forse un mese, forse pochi giorni. Chissà.» E Gerardo sorrise. Giacomo era con la sua famiglia da sempre, lo conosceva fin da bambino. Tra loro si era sviluppata una profonda confidenza.

Il maggiordomo preferì non insistere: sapeva che, quando il conte rispondeva in quel modo evasivo, era inutile farlo. Sapeva delle sue ricerche e, finché l’età glielo aveva consentito, lo aveva accompagnato più volte.

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