Marco Buticchi - Profezia

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Profezia: краткое содержание, описание и аннотация

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«Il vero problema, invece, consisteva nella loro potenza e ricchezza, che stavano per diventare una minaccia per i potenti del tempo. Con il risultato che Filippo IV il Bello, le cui finanze rischiavano la bancarotta, il 13 ottobre 1307 fece arrestare tutti i Templari di Francia, confiscando i loro beni e consegnandoli all’Inquisizione. Era un venerdì, e da lì discende la superstizione che sconsiglia d’intraprendere attività a rischio di venerdì 13. E anche quella che, qui in America, vieta i piani e le camere numero 13.

«Sotto le torture dell’Inquisizione molti Cavalieri confessarono colpe che andavano dall’eresia alla cospirazione, dalla stregoneria alla sodomia, e chi più ne ha più ne metta. Finché nel marzo del 1314 fu arso vivo a Parigi l’ultimo Gran Maestro, Jacques de Molay: l’Ordine dei Templari era distrutto. Ma c’è chi pensa che così non sia.»

«Cioè?» chiese ancora la giornalista.

«Be’, per esempio, in certi rituali d’iniziazione massonica sopravvivono simbologie templari. E un’associazione che prende il nome dagli antichi Cavalieri esiste ancora oggi, ma esercita prevalentemente fini assistenziali e filantropici. A riti templari facevano riferimento certe sette che di recente hanno fatto molto scalpore con i loro suicidi di massa. E altre sette ancora, più o meno potenti od oscure. Ma non esistono documenti tali da far supporre che gli eredi dei Templari siano ancora tra noi.»

«Se invece vi fossero, secondo lei che cosa farebbero?» non riuscì a trattenersi dal chiedere Maggie.

«La prima cosa che mi viene in mente è che cercherebbero una rivincita nei confronti del papa, il discendente di quel Clemente V che, cedendo alle pressioni di Filippo il Bello, autorizzò i processi, le torture e i roghi dell’Inquisizione.»

«Crede che i Templari siano davvero depositari di qualche segreto?» chiese ancora Maggie, sgranando gli occhi bruni.

«Chi può dirlo, signora Hassler? Posso soltanto rispondere che il mistero che avvolge la loro fine riporterebbe addirittura ad antiche profezie, agli albori della Bibbia, alle origini delle nostre tre religioni monoteiste. Sì, un vero, straordinario e affascinante mistero.»

Mosca. Dicembre 1991

«Credo che dovresti diversificare il lavoro, Chalva», disse un giorno Iosif, che in pochi mesi era diventato il braccio destro di Tanzic. «In che senso?»

«Esistono altre attività oltre alle puttane.»

«Cioè?»

«La droga, per esempio. O le armi, se vuoi mantenerti ai limiti della legalità. Nessuno verrà mai a sindacare a chi vendi armi.»

«Già, ma quelle che chiami puttane non richiedono i grossi investimenti necessari per la droga o le armi. Tutto quello che guadagno lo uso per vivere bene, quindi non ho la liquidità necessaria per comprare eroina o mitragliatori. E soprattutto non bisogna sottovalutare il fatto che i gruppi attivi a Mosca sono ormai assestati, specializzati per settori, e non ammettono la concorrenza. Se dovessimo invadere un campo altrui, scateneremmo una guerra.»

«Non dirmi che hai paura.»

«Mi conosci, Drostin. Ti sembro uno che può avere paura?» ribatté Tanzic con gli occhi ridotti a una fessura. «Ma dove li trovo i soldi per buttarmi in attività del genere?»

«Potrei forse esserti utile io, ricambiando quello che hai fatto per me.»

E all’espressione incuriosita dell’altro, Iosif continuò: «Non ho prove certe, visto che Kaplan mi ha sorpreso proprio mentre stavo per disseppellirlo, ma sono convinto di conoscere il nascondiglio di una parte del tesoro dei Romanov. Se così dovesse essere, e se mi aiuterai, il cinquanta per cento di ciò che troveremo sarà tuo».

Quindi proseguì ripercorrendo per sommi capi le tappe che lo avevano portato alla sua scoperta. Sapeva che senza l’aiuto di Tanzic gli sarebbe stato impossibile tornare a Ekaterinburg per completare la ricerca.

Tanzic lo ascoltò con attenzione, annuendo più volte. Decisero che il giorno dopo sarebbero andati da soli alla miniera dei Quattro Fratelli.

Le gomme chiodate dell’auto facevano buona presa sul ghiaccio. Avevano scelto un’utilitaria per non dare nell’occhio, e raggiungere Ekaterinburg richiese più di sette ore. Parcheggiata l’auto all’inizio del sentiero, smontarono e presero le pale.

La radura dei Quattro Fratelli non era molto cambiata. Un manto bianco di neve si stendeva sulla vegetazione, quasi volesse celare i punti di riferimento. Ma Iosif li ricordava fin troppo bene.

Trovare l’anfratto dove aveva nascosto il corpo di Kaplan richiese pochi minuti. Vide subito il teschio con la menomazione allo zigomo: nessuno aveva violato la tomba del suo aguzzino.

«Il bastardo ha avuto quello che si meritava», commentò Tanzic.

Iosif stese ancora una volta lo spago sulla neve e gli indicò l’incontro delle diagonali.

«Dobbiamo scavare in questo punto», disse, passandogli una delle due pale.

Quando abbandonarono la ricerca era ormai sera. Tornarono all’auto. Tanzic avviò il motore e accese il riscaldamento. Avrebbero dormito fino all’alba.

Nell’eseguire lo scavo avevano usato una tecnica «a spirale», partendo cioè dal centro e procedendo verso l’esterno.

Nonno Igor non poteva aver avuto il tempo di scavare una buca molto profonda, per cui non erano scesi più giù di novanta centimetri, sperando che gli anni non avessero fatto depositare grosse quantità di terra sulla zona.

Alle prime luci erano già al lavoro, e a mezza mattina Tanzic urlò: «Qui, fratello, qui! Sento qualcosa!»

Iosif si avvicinò e cominciò a rimuovere con cautela la terra che imprigionava l’oggetto. Riconobbe ciò che restava di una bisaccia militare in pelle, ancora chiusa con il suo laccio, che però cedette subito, facendo apparire un involucro di stoffa ormai corrosa. Iosif la toccò con mani quasi tremanti, e la stoffa si sbriciolò al solo contatto.

I due uomini rimasero qualche istante con gli occhi sbarrati, il respiro affannoso, incapaci di parlare. Dai frammenti di stoffa era emerso un tesoro in pietre preziose, da cui un gelido raggio di sole evocava fulgidi lampi di luce.

Ancora in silenzio, Tanzic allungò la destra quasi con timore, contando mentalmente. Tra la terra smossa c’erano una trentina tra diamanti e rubini di grossa caratura, più sei zaffiri.

«Siamo ricchi, Iosif», urlò finalmente. «Ricchi!»

New York. Febbraio 1992

«Ricordi la nostra famosa seduta spiritica?» chiese Maggie, seduta davanti alla scrivania di Derrick Grant.

«Come potrei dimenticarla? Mi hai fatto prendere uno spavento terribile.»

«Be’, sono diverse notti che ho un sogno ricorrente. Non si tratta di una delle mie solite sensazioni , ma di un sogno vero e proprio, in cui mi appaiono tre bambini, due femmine e un maschio. Il maschio mi si fa incontro, è molto piccolo e mi ripete la frase: ‘La Profezia incombe, voi potrete salvare il mondo’.»

«Accidenti. Le stesse parole che hai pronunciato durante quella seduta spiritica.»

«Così mi hai detto allora, ma non capisco che cosa significhino, e a quale profezia possano riferirsi.»

«La letteratura religiosa è piena di profezie», commentò Grant in tono meditabondo.

«E chi sarebbero le persone in grado di salvare il mondo?»

«Se fossi in te non darei un gran peso alla cosa, Maggie. Hai detto tu stessa che non si tratta di una delle solite sensazioni , ma di un sogno.»

«No, Derrick. Devo saperne di più. Capire.»

«Non so che cosa potrei fare, ma considerami ancora una volta a tua disposizione.»

«Sapevo di poter contare su di te. Sei l’unica persona con cui possa confidarmi.»

E Maggie si alzò. Il suo corpo slanciato sembrava disegnato per indossare quel tailleur chiaro. I denti candidi sfavillavano nel bruno del viso. Derrick la accompagnò alla porta. Lei lo baciò con affetto sulla guancia e uscì.

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