R. mi dice che si trasferirà di nuovo. La lettera di Abdullah Diouri lo ha davvero colpito nel profondo.
3 dicembre 1959, Tangeri
Scrive M., molto abbattuta. I dolori allo stomaco di M. G. sono dovuti a un tumore al fegato, questa è stata la diagnosi, e nessun chirurgo è disposto a operare. Sembra che sia una questione di mesi, se non di settimane. Si era veramente attaccata a M.G. e so che questa notizia sarà un colpo devastante per lei. Mi chiede di Javier, altra persona di sesso maschile che le è entrata nel cuore. Leggendo la sua lettera sono preso dalla nostalgia di come eravamo, io e P., e questo pensiero mi fa balzare su dalla sedia. Passeggio avanti e indietro nella stanza. C'è un intruso nella mia testa e rovisto nei pensieri finché trovo la faccia dell'uomo sulla spiaggia. So che non troverò pace fino a quando non avrò saputo chi sia.
7 aprile 1960, Tangeri
Non lavoro più, non riesco a lavorare, la mia mente non trova un punto fermo, non sopporto di stare nello studio e vago per la città e nella medina guardando le facce della gente, osservando e aspettando di incontrare lo sconosciuto. È la mia nuova ossessione. Vivo dentro la mia mente, che ha la logica bizzarra della medina, ma finisco sempre in un vicolo cieco.
10 maggio 1960, Tangeri
Avevo ormai rinunciato alla speranza quando, percorrendo il boulevard Pasteur, sono stranamente attratto da un oggetto nella vetrina di uno dei negozi di souvenir, una statuetta scolpita in osso. Mentre alzo lo sguardo dalla scultura, vedo lo sconosciuto della spiaggia che serve nella bottega. In un primo momento penso che sia il proprietario, poi vedo un vecchio che sta alla cassa. Entro e, ignorando lo sconosciuto, domando al vecchio qualcosa sulla statuetta; lui mi dice che è opera di suo figlio. Sono interessato e voglio sapere come si chiama: il nome è Tariq Chefchaouni. Il vecchio dice anche che suo figlio ha un laboratorio in periferia, sulla strada per Asilah. Mentre parliamo noto accanto alla cassa un cestino pieno di anelli da poco prezzo. Quattro sono cubi di agata montati su semplici fascette d'argento. Ora comprendo la perplessità di P. O era paura?
Quando lesse il nome per la prima volta, Falcón si alzò di scatto e compì un giro dello studio stringendo i pugni. L'indomani mattina avrebbe avuto il numero del documento di identità dell'assassino e un indirizzo. Bevve altro whisky e si riempì di nuovo il bicchiere.
2 giugno 1960, Tangeri
Una lettera di M. M.G. è morto, dopo essere vissuto due mesi più del previsto. È sconsolata. Le scrivo per farle le mie condoglianze e la esorto a venire in Marocco, suggerendole di lasciare la sua città, la scena del dolore. Sono egoista. Ho bisogno di una compagnia, P. e io ci comportiamo come due estranei; o meglio, come se ci fosse un estraneo tra di noi. Dovrei domandarle di Tariq Chefchaounì, dovrei, in quanto suo marito, esigere di sapere chi abbia frequentato sulla spiaggia, ma non lo faccio. Perché no? Frugo dappertutto nel mio animo, cercando una spiegazione e non ne trovo nessuna, se non che l'idea sembra spaventarmi. È possibile che sia spaventato io, un veterano di Krasni Bor? Ma non si tratta di paura fisica, mi sgomenta rivelare la mia vulnerabilità. Sono sbigottito scoprendo che tutto questo è cominciato l'estate scorsa e che mi tormenta da un anno intero.
3 giugno 1960, Tangeri
Torno in boulevard Pasteur e aspetto davanti al negozio che il giovane esca, poi entro e chiedo al padre quanto voglia per la piccola scultura in osso. Dice che non è in vendita (una tecnica che conosco) e cominciamo a mercanteggiare. Non conduco bene il gioco, perché l'idea che T.C. possa ritornare da un momento all'altro mi mette troppa agitazione. Pago trenta dollari, una somma che mi pare esorbitante finché, tornato nello studio, mi rendo conto che è effettivamente un pezzo di grande valore. Le linee, le forme sono di una bellezza sconvolgente, di una finezza che contrasta con la qualità macabra del materiale usato. Quest'opera dice qualcosa di ambiguo su ciò che significa essere un uomo. Comincio a pensare che il vecchio non sia stato niente affatto astuto, ma abbia commesso in realtà un errore imperdonabile.
18 giugno 1960, Tangeri
Ecco come sono fatto. È il compleanno di P. Invece di regalarle il solito gioiello incarto la piccola scultura in osso, faccio venire mia moglie nello studio verso sera e servo champagne sulla veranda. C'è ancora luce e fa caldo, con una gentile brezza di mare. Quando le porgo il regalo siamo come sospesi in un momento perfetto. P. è tutta eccitata, perché in genere i miei sono sempre pacchetti piccoli, non le ho mai donato nulla che misuri quaranta centimetri di altezza. Strappa la carta come una bambina e io la osservo come un lupo in agguato. Lei arriva, per così dire, all'osso e io so. Il suo viso, per una frazione di secondo, si è spaccato in due, gli occhi si sono ingranditi e sembrano staccati dal viso. Poi si riprende. Torniamo allo champagne. Il cielo si fa scuro. Sento che mi sta guardando come se fossi una bestia strana in forma umana, ma che, sbadatamente, abbia lasciato intravedere una zampa pelosa. Ho ciò che voglio, lei ha ciò che desidera. La scultura è sulla sua toletta.
Una lettera mi informa che M. è stata trattenuta da problemi legali. Sembra che i figli di primo letto di M.G. non la ritengano degna di ereditare metà del patrimonio del defunto marito.
3 agosto 1960, Tangeri
Trovo il laboratorio di T.C. e mi dicono che d'estate lui non c'è mai. La casa, ne sono sicuro, consiste di non più di due stanze con un giardino sul retro. È isolata dagli altri edifici, perciò non fa parte dell'abitazione della famiglia. Torno di notte e aspetto e osservo. Tutto è silenzioso. Sono di nuovo lì la notte successiva e scavalco il muro del giardino rigoglioso che sa di terra bagnata. Al centro vedo un grande serbatoio di mattoni pieno d'acqua fino all'orlo. Il lucchetto della porta sul retro si apre facilmente. All'interno un materasso di paglia su un giaciglio di legno e, in un angolo, un recipiente ricavato da una zucca, nient'altro. Esito nell'avvicinarmi alla porta della stanza attigua, quasi avessi una premonizione che la mia vita non sarà più la stessa dopo che ne avrò attraversata la soglia. La stanza è il suo studio, ingombro come il mio, delle stesse cose. La mia torcia illumina ferro battuto, sculture in pietra, intagli in corno e gioielli finché non incontra il bordo di un dipinto.
Punto il fascio di luce su di esso e vengo attratto come se cadessi sulla punta della mia stessa spada. In fondo alla stanza tre nudi astratti. Guardarli nel pulviscolo di quel raggio luminoso non è il modo migliore per osservarli, ma perfino in quella penombra infelice la loro qualità si impone. Due nudi sono distesi, uno è eretto. Comprendo immediatamente, sebbene siano astratti, che il soggetto è P. Mi sento strappare le viscere a quella vista. Quei dipinti sono lo sviluppo perfetto e bellissimo dei miei disegni a carboncino di P. di quindici anni prima. Lacrime cocenti mi bagnano il viso al pensiero che questa dovrebbe essere la giusta conclusione del «mio» lavoro.
Sul tavolo è posato un album da disegno che mi è impossibile non sfogliare. Disegni di grandissima qualità, particolari figurativi, una mano, una caviglia, una gola, seni grossi e pesanti, natiche, una vita, un ventre. Sono incantato. Poi arrivo al mio volto, uno schizzo brillante. Seguono sviluppi su questo stesso tema, caricature sempre più orribili finché, nell'angolo destro in basso, io sono un bruto, un orrendo personaggio da fumetto. Mi trema la mano per la rabbia, la visione che lui ha di me mi conferisce ogni diritto, ormai sono capace di tutto.
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