31 dicembre 1963, Tangeri
Sono stato sbadato e tutto è cambiato ormai. M. e io eravamo nello studio ieri, i bambini erano in strada, così smaniosi di giocare da non aspettare di essere sulla sabbia morbida della spiaggia. Javier, cercando disperatamente di stare alla pari con i fratelli, è caduto e ha battuto la testa. Si è riempito il viso di sangue. Mi sono precipitato fuori, l'ho buttato dentro la macchina e l'ho trasportato immediatamente all'ospedale dove gli hanno dato qualche punto. Quando sono tornato allo studio, ho capito che era tutto cambiato.
Che cosa è cambiato? Continuiamo a essere marito e moglie, continuiamo a vivere nella stessa casa, stasera daremo comunque la festa di capodanno.
Al mio ritorno dall'ospedale M. non mi ha chiesto subito di Javier, rimasto a casa con la domestica. Era sulla veranda e mi guardava come se io fossi un lupo solitario su una distesa di ghiaccio. Mi sono avvicinato, le ho detto di Javier, mi sembrava di recitare. Lei mi ha girato attorno ed è rientrata nella stanza. Le ho detto che Javier era a casa e che voleva vederla. Si è praticamente precipitata verso la porta. In macchina non abbiamo aperto bocca, mentre Paco e Manuela bisticciavano sul sedile posteriore. M. è salita di sopra e io sono andato nella stanza che un tempo era il mio studio.
Sono ancora qui, ventiquatt'ore dopo, a guardare la sua ombra sul soffitto della camera di Javier. È già buio, tra poche ore gli ospiti saranno qui per la cena, poi andremo in barca a guardare i fuochi d'artificio nel porto. Sono quasi paralizzato dalla tristezza. Osservo la sua ombra, più grande ora, perché tiene in braccio Javier. Si avvicinano alla finestra e guardano il patio oscuro e il nero d'inchiostro del fico. Ho le lacrime agli occhi perché so che sta dicendo addio a Javier, che sarà mia moglie per la festa di questa sera e poi mai più. Se ne andrà e andandosene mi tradirà. Ora vado in camera mia a mettermi lo smoking.
5 gennaio 1964, Tangeri
Sono distrutto dalla fatica, ma devo affrontare la pagina, il mio confessionale di tutti questi anni. Questo è diventato il diario, ci vomito dentro e la nausea agghiacciante della mia esistenza si placa. La sera della cena, mentre mi vesto, vedo M. andare dritta in bagno come se volesse nascondersi, aspettando che io esca per indossare l'abito da sera. Vado a vedere i bambini. M. scende soltanto quando arrivano gli ospiti. I miei occhi la seguono mentre parla con gli altri, ogni tanto i nostri sguardi si scontrano e subito ci giriamo dall'altra parte. La cena è animata e chiassosa, ma per me è stato come se fossi un bambino nascosto sotto il tavolo. Dopo cena ci riuniamo nell'ingresso dove le signore indossano i cappotti e, a un tratto, Javier compare ai piedi delle scale. M. lo riporta a letto. Il viso di Javier è nascosto sulla spalla di lei. Usciamo tutti insieme, M. al braccio di Salgado. Non appena arrivati allo yacht stappiamo lo champagne, guardando i fuochi d'artificio. Poi gli ospiti cominciano ad andarsene.
Spiego a Ramón che voglio uscire in mare e che deve dirlo lui a M. «Per te farebbe qualsiasi cosa», gli dico. «Se glielo chiedo io, riuscirebbe sicuramente a dissuadermi.» Un'ora dopo siamo al largo, su un mare piatto; fa freddo e la mezza luna aumenta il gelo. Beviamo champagne al timone, M. si stringe addosso la pelliccia di volpe artica. L'immobilità del mare è impressionante. Poi si leva il vento da non si sa dove e Ramón, che ha bevuto troppo, si ritira sotto coperta. Io eseguo la virata per tornare a Tangeri.
Alla fine M. dice: «Ti lascio… lo sai già, non è vero?» Le chiedo come ha fatto a trovare i diari. È riuscita a convincere Javier a rivelarle dove li tengo. La sua faccia è vicinissima alla mia mentre soggiunge: «Il tuo segreto rimane tra noi». Se mi fermo a pensare, anche solo per un attimo, so che non sarò più capace di farlo, perciò le assesto un colpo sul plesso solare e lei si piega in due sul mio braccio. La spingo con violenza tale da mandarla a sbattere sulla battagliola, che la colpisce sotto le natiche. M. fa una specie di capriola e, come in una comica, i piedi si agitano in aria. Quasi non si sente il tonfo nell'acqua. Non mi volto a guardare, il mare si sta ingrossando e c'è tempesta quando entriamo in porto. Chiamo M. e Salgado perché salgano in coperta e Salgado compare, con gli occhi cisposi. Gli dico di svegliare M. e Salgado torna giù. Ricompare dopo pochi secondi dicendo che non è nella sua cabina. Impazziamo per cercarla dappertutto prima di affrontare l'orribile verità e avvertire la guardia costiera. Non la troviamo più. Il giorno seguente riferisco a Javier quello che è successo. È disperato.
La voce continuava, ma distante ora, perché Javier era di nuovo laggiù e camminava verso lo studio di suo padre, chiamato lì per apprendere la terribile notizia che gli era già arrivata quella mattina attraverso le spesse pareti imbiancate a calce. Una nube di tristezza riempie la casa e il piccolo sente solo il battito del suo cuore mentre sguscia attraverso la porta e si trova alla presenza di suo padre che lo chiama. Javier pensa che lo abbraccerà stretto e lo bacerà sulla testa, ma Francisco invece lo prende per un braccio, glielo pizzica e glielo tira così forte che Javier si alza sulla punta dei piedi. L'enorme viso di suo padre si abbassa al livello del suo e l'uomo punta il dito contro un occhio di Javier, come se fosse una pistola carica.
«Tu sai perché Mercedes non tornerà più, non è vero, Javier?» Javier sopportava muto il doppio dolore del braccio e di ciò che io avevo riconosciuto come il vuoto, l'abisso della cosa che temeva di più.
«È importante», gli ho detto, tirandolo verso di me in modo che la sua faccia sgomenta fosse vicina alla mia. «Non dovrai mai più dire a nessuno dove tengo i diari. È il mio segreto. Voglio che tu lo ricordi… Da ora in poi, Javier, i diari non esistono più.»
Di nuovo nel corridoio, fuori dallo studio di suo padre, Javier si esamina il braccio. Gli salgono le lacrime agli occhi, scendono rapide e pulite lungo le guance lisce. Si sente la bocca piena di saliva e sa che Mercedes non tornerà mai più. Non sentirà mai più l'odore di lei mentre il suo rimane sotto le lenzuola ben rimboccate, le sue piccole dita non seguiranno più il contorno dell'orecchio di lei. Ed è colpa sua. Non avrebbe mai dovuto dirglielo. Si mette a correre, lungo il corridoio, su per le scale, fino alla sua camera, fino al suo letto, ma ormai il baratro buio di quella comprensione è in lui, come il dolore al braccio.
«Questo chiarisce un po' le cose?» domandò la voce e Javier ebbe la sensazione di essere nel traffico di una strada affollata, finché non fu di nuovo scaraventato nella realtà, lo sguardo sempre fisso sul bicipite, come se stesse esaminando l'escoriazione che gli aveva provocato dolore tanti anni prima.
«Mi voleva ancora bene», sbottò, la bocca piena di saliva. «Mi stava solo avvertendo, ma mi voleva bene. Non siamo vissuti tanti anni insieme senza…»
«Continui a non crederci. Io posso capirlo, Javier, è difficile rinunciare a questo… come è difficile rinunciare alla vita… finché non diviene assolutamente intollerabile. Finché le proprie azioni…»
«Ma chi sei ?» sbottò Javier. «Chi cazzo sei?»
«Io sono i tuoi occhi», rispose la voce. «Attraverso di me imparerai a vedere. Di quanto coraggio disponi, Javier?»
Javier scosse il capo, niente affatto coraggioso, tuttora schiacciato dal peso della morte di Mercedes che gli gravava sulla coscienza e pieno di terrore all'idea delle nuove possibilità, dei nuovi orrori, quelli che conosceva ma non rammentava ancora.
«Hai paura, non è vero, Javier? Hai paura di quello che vedrai.»
La faccia di Javier tremava sotto la tensione del cavo.
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