«Che cosa hai mostrato agli altri… a Raúl e a Ramón?» domandò, cercando disperatamente di rimandare il momento. «Che cosa hai scoperto di tanto terribile da far vedere a loro due?»
«Dovresti saperlo ormai», disse la voce, «non ho mostrato niente di terribile, nessun figlio abbandonato o lattanti morti, nessuna fanciulla violentata o ragazzi sodomizzati e strangolati; certe cose si possono vedere al telegiornale, al cinema, sulle riviste, su Internet, alla TV. Siamo assuefatti alla brutalità della condizione umana, niente ci inorridisce più. Hai visto le immagini che aveva Salgado sul computer? Hai visto che cosa guardava Raúl Jiménez mentre si scopava la sua puta ? Quegli uomini erano molto versati nell'orrore, non avrei potuto mostrare loro niente del genere.»
«E allora che cosa hai mostrato?»
«Ho fatto vedere a tutti e due la felicità che avevano abbandonato.»
«La felicità ?»
«Arturo che giocava sulla spiaggia con Marta. Lei gli faceva il solletico, sai, gli faceva il solletico finché Arturo non resisteva più. Il sonoro l'ho aggiunto io. Manuela non ti faceva mai il solletico? Solleticarti a morte, quasi, solleticarti finché non era più solletico, ma tortura. Ah, la mente gioca tali scherzi, Javier… dopo decenni di rimozione.»
«E Ramón? Che cosa hai mostrato a Ramón? La moglie felice…»
«Credo che sia stato Raúl a dargli quei filmetti come regalo di nozze. Gli sposi felici, Ramón e Carmen. Hai ascoltato i nastri?»
Javier annuì.
«Ce n'era un altro, l'ho portato via io. Carmen alla fine cantava, la voce non era eccezionale, ma cantava per Ramón… una canzone d'amore. Ramón, alla fine, applaudiva e io ho colto la sua emozione. Ho cambiato un poco la registrazione, ho eliminato gli applausi… solo quei tre urli disperati: 'Ramón! Ramón! Ramón!'»
Javier rabbrividì al pensiero della raffinatezza di quella tortura. Al pensiero di quei due uomini che avevano dovuto affrontare il doppio orrore del taglio chirurgico e degli ultimi momenti di vera felicità crudelmente sfigurati dal montaggio sonoro.
«E a me? Che cosa mi farai vedere?» domandò. La paura stava scatenando la rabbia di Javier, che si sforzava di ricordare l'ultima volta in cui era stato felice. «Quale felicità ho abbandonato io?»
«Ti benderò per qualche momento», disse la voce. «Quando ti toglierò la mascherina, vedrai.»
Un elastico sulla nuca, poi la morbida oscurità ovattata. Era piacevole quel buio vellutato, trapuntato. Javier pensò che non avrebbe mai più dovuto uscire da quella tenebra. Qualcosa venne posato sulla scrivania, la sedia fu spostata in avanti, l'adrenalina cominciò a fluire nel suo organismo. Il panico assoluto dentro di lui si assottigliò, gli scorse nel sangue, raffreddandolo, sangue simile a etere ora. Javier era gelato e tremante. Delle dita gli sfilarono la maschera ma Falcón tenne gli occhi chiusi.
«Apri gli occhi, Javier», disse la voce. «Tu, meglio degli altri, sai che cosa succederà se non li aprirai. Davvero, non è niente di terribile.»
«Li aprirò. Concedimi solo un po' di tempo.»
«È una cosa che vedi tutti i giorni.»
«Lo sai che non è per la cosa sulla scrivania, è per la cosa nella mia testa», ribatté Javier.
«Apri gli occhi.»
«Sì.»
«Il tempo si sta esaurendo.»
«Li aprirò.»
«Ti costringerò ad aprirli. Lo sai come te li farò aprire, lo sai come faccio.»
Javier si sentì stringere e piegare all'indietro la testa nella morsa di un gomito piegato, il collo teso al punto da non riuscire a gridare. Avvertì il tocco della lama. Era come ghiaccio. La bruciatura fredda di un metallo insensibile. Qualcosa di caldo gli gocciolò sulla guancia, più denso del sudore o delle lacrime. Spalancò gli occhi mentre la sua testa si piegava in avanti.
Sul tavolo era posato un bicchiere di latte. Si ritrasse immediatamente, ma troppo tardi, l'immagine gli si era infilata nel cervello come una scheggia di vetro. Non aveva idea del perché fosse così spaventato, non vi era nessuna logica nei lampi di paura che pulsavano da sinapsi a sinapsi, da nervo a nervo, finché tutto il suo corpo fu scosso da spasmi tali da far traballare la sedia.
La benda gli ricadde sugli occhi, chiudendo fuori la ridicola realtà di un bicchiere di latte. Una mano gli sfiorò i capelli mentre un corpo si sporgeva sopra di lui.
«Fiutalo.»
Javier inspirò una boccata di un odore nauseabondo, greve, dolciastro, mentre un sapore di uova marce gli impregnava la saliva e il sudore freddo lo bagnava in tutto il corpo. Vomitò.
L'odore fu allontanato, il bicchiere di nuovo posato sulla scrivania. L'uomo riprese la posizione alle sue spalle.
«Sapevo che saresti stato coraggioso», disse la voce.
«Non mi sento coraggioso», balbettò Javier, tossendo e ansimando.
«Quale odore hai sentito?» domandò la voce.
«Mandorle e latte. Come fai a sapere che odio le mandorle e il latte?»
«Chi era abituato a bere latte di mandorle tutte le sere prima di dormire?»
«Mia madre, credo.»
«Tu sai che era tua madre», disse la voce. «Chi le portava il bicchiere di latte di mandorle tutte le sere?»
«La sua cameriera…»
«No, lei lo preparava. Chi lo portava a tua madre?»
«Io no», disse Javier in fretta, al modo di un bambino. La bugia istintiva. «Non ero io. Era Manuela.»
«Sai perché tuo padre ti odiava?»
Al colmo dell'infelicità, Javier lasciò ciondolare la testa, la scosse di qua e di là, negando, negando tutto ciò che affiorava nella mente.
«Perché tuo padre ha fatto in modo che tu lo amassi?»
«Non capisco, non ti capisco più.»
«Calmati ora, Javier. Ti leggerò una storia, proprio come faceva tuo padre per farti addormentare. Che storia abbiamo stasera? Sì, stasera sarà questa: 'Una piccola storia di dolore che diverrà il tuo'.»
3 gennaio 1961, Tangeri
Per sei giorni, sedendomi di fronte a P. ho osservato il suo viso farsi terreo. Solo i bambini riescono a ridarle un po' di vita. Le chiedo che cosa abbia e lei mi risponde sempre nello stesso modo: «Nada, nada». Passo davanti al laboratorio di T.C. I muri sono intatti, la porta è bruciata e il tetto è crollato. Sento dire al caffè frequentato da T.C. che non ci sarà un'inchiesta. È stato un tragico incidente. P. ha cominciato ad andare a messa regolarmente. Io guardo il mare con il binocolo. È piatto e grigio come l'acciaio. La spiaggia è vuota. Osservo i gabbiani tuffarsi.
12 gennaio 1961, Tangeri
Javier compie cinque anni e diamo una festicciola per lui. P. è piena di vitalità per tutto il tempo del ricevimento e io sono stupefatto dalla sua bravura. Sono la stella del pomeriggio come mostro degli abissi marini. Sciami di bambini scappano via da me strillando, ogni tanto ne acchiappo uno e divoro con gran gusto quel boccone di marmocchio che ride e si divincola… finché una bambina non si fa la pipì addosso. Fine del mostro. I bambini vanno a letto presto e P. e io ceniamo da soli nel nostro silenzio abituale. Perfino la servitù è come se camminasse sulle uova vicino a noi. Il pasto finisce, i domestici se ne vanno, rimaniamo soli. Sorseggio brandy e fumo. Faccio le mie solite osservazioni sul suo comportamento negli ultimi tempi e questa volta P. batte entrambi i pugni sul tavolo. Sembra una fucilata. Mi scruta in faccia, sporgendosi verso di me.
P.: So che sei stato tu.
Io: Come?
P.: So che sei tu il responsabile.
Io: Di che?
P.: Della sua morte.
Io: Morte di chi?
P.: Sei freddo come i paesaggi che dipingevi una volta, quelle distese desolate. Tu non hai cuore, Francisco Falcón. Sei vuoto, sei freddo e sei un assassino.
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