Pronuncia le fatali parole: «Non potevo affrontare uno scandalo».
Non lo disprezzo, nemmeno per questo. Chi sono io per poter disprezzare qualcuno? Mi siedo ai piedi del ragazzo e accendo una sigaretta a Salgado.
«Mi aiuterai?» mi domanda.
Gli racconto una storia che ho sentito da un amico di B.H. negli anni '40, su un ricco invertito che aveva rimorchiato un gruppetto di militari in un noto bar per omosessuali di Manhattan e li aveva portati a una festa in casa di sua madre sulla Quinta Strada. Erano tutti ubriachi e uno dei soldati aveva perso i sensi. Allora gli avevano sfilato i pantaloni, per scherzo avevano cominciato a radergli i peli del pube e accidentalmente, sottolineo accidentalmente, gli avevano mozzato il pene. Che cosa fanno a questo punto? (Salgado mi guarda come Javier quando gli racconto una storia prima di dormire, rannicchiato e con gli occhi sgranati.) Lo avvolgono in una coperta e lo scaricano su non so quale ponte. Il soldato era stato fortunato, perché lo aveva trovato un poliziotto che lo aveva trasportato all'ospedale prima che morisse dissanguato.
«Che cosa ne concludi, Ramón?» domando.
Batte le palpebre, disperato all'idea di dare la risposta sbagliata ed essere mandato fuori dall'aula.
«Se mi aiuterai, Francisco», dice, «non farò mai più una cosa del genere.»
«Che cosa? Uccidere qualcuno?»
«No, no, voglio dire… non andrò mai più con i ragazzi, condurrò una vita esemplare'.»
«Ti aiuterò», gli dico, «ma voglio sapere che cosa ne pensi della mia storia.»
Altro silenzio. È troppo spaventato per pensare.
«Avevano anche pagato il soldato perché non parlasse», aggiungo. «Quanto credi che lo avessero pagato?»
Scuote la testa.
«Duecentomila dollari e si tratta del 1946», dico. «A quel tempo si guadagnava molto di più perdendo il piffero che dipingendo quadri.»
Salgado si precipita in bagno a vomitare. Torna, asciugandosi la bocca.
«Non so come tu possa rimanere così freddo, Francisco.»
«Ho ucciso migliaia di persone, tutte quante non più colpevoli o innocenti di noi due.»
«Ma è stato in guerra 1.» obietta lui.
«Sto solo spiegando che quando si sono visti i massacri ai quali ho assistito io, un ragazzo morto in una camera d'albergo non è una cosa tanto terribile. Su, ora dimmi che cosa ne pensi della mia storia.»
«È stata un'azione orribile», dice, aspirando il fumo della sigaretta.
«Peggiore di uccidere un ragazzo?»
«Avrebbe potuto morire, per quel che interessava a loro.»
«Giusto. E che cosa ti dice sulla gente che tu sei così ansioso di impressionare favorevolmente?» domando. «Il colpevole è ancora a piede libero, a proposito, e ancora amico di Barbara Hutton.»
Ramón è troppo stravolto per arrivarci da solo.
«Noi siamo i loro cagnolini ammaestrati», spiego, «siamo i loro giocattoli, sì, anch'io lo sono, Ramón. Ci accarezzano, ci danno qualche bocconcino, si divertono con noi, poi si stancano e ci buttano via. Noi non siamo niente per quella gente, assolutamente niente. Meno di giocattoli. Perciò, quando sorseggerai il loro champagne, ricordati che è per l'alta opinione di questi personaggi senza nessun valore che tu hai ucciso quel ragazzo.»
Le mie parole gli sfondano il petto come proiettili di grosso calibro. Si abbatte sulla sedia.
«Per loro?» domanda stupefatto.
«Hai ucciso il ragazzo perché non ti piaceva l'idea che quella gente sapesse di questo lato di te, l'hai ammazzato perché questa è l'unica cosa di te che trovi odiosa e credi che anche gli altri la giudichino così. E hai sbagliato completamente.»
Singhiozza. Io gli batto la mano sulla spalla.
«Francisco», dice, «dove sarei senza di te?»
«In un posto molto più piacevole», rispondo.
Non è stato difficile liberarsi del cadavere. Alle tre del mattino lo abbiamo trasportato nel giardino dell'albergo e sollevato al di là del muro. Lo abbiamo messo sulla macchina, lo abbiamo portato alla scogliera fuori città e lo abbiamo buttato in mare. Mentre tornavamo in città Ramón guardava fuori dal finestrino, incapace di pronunciare una parola, un uomo che doveva venire a patti con una realtà totalmente diversa, una realtà nella quale, a causa di un momento di cecità, niente sarebbe stato lo stesso mai più. Se si è costretti a uccidere. Se non c'è più niente da fare. Allora bisogna uccidere tenendo gli occhi ben aperti.
Falcón lasciò che i fogli fotocopiati gli cadessero dal grembo e si sparpagliassero sul pavimento. Era ipnotizzato dai suoi pensieri, dalla conferma del fatto che l'assassino avesse avuto accesso ai diari di suo padre; e ora, con le informazioni avute da El Zurdo, Falcón sapeva che doveva trattarsi di uno degli studenti d'arte che suo padre aveva ospitato in casa per sentirsi meno solo.
La Facultad de Bellas Artes era certamente chiusa, El Zurdo irraggiungibile. Sfogliò la rubrica di suo padre e trovò il nome di una persona dell'università con il numero di telefono di casa. Provò a chiamare, ma non ottenne risposta.
I suoi pensieri si rivolsero a Raúl Jiménez e alla rivelazione che aveva provocato la rottura con Francisco Falcón. Gli sembrava improbabile che suo padre non ne avesse fatto parola nei diari, poi si rese conto che era avvenuta in una data successiva a quella delle righe finali, nelle quali annunciava di essere ormai definitivamente annoiato.
Javier scostò bruscamente la sedia e corse al piano superiore, rallentando poi il passo quando fu nella galleria fino a fermarsi davanti allo studio di suo padre, lo sguardo fisso nella pupilla nera della fontana nel patio. Un'idea apparentemente priva di collegamento gli aveva attraversato la mente. Uno degli elementi insolubili del caso era ciò che Sergio aveva costretto Raúl Jiménez a vedere. Dove aveva preso quelle immagini? Gli scheletri nell'armadio di Salgado erano stati abbastanza facili da scoprire per gli investigatori, avevano trovato il baule nella mansarda e i film, ma con Raúl Jiménez non erano arrivati mai a niente; nonostante le interminabili ricerche alle Mudanzas Triana, non si era trovata nessuna prova che il materiale là conservato da tempo fosse stato manomesso.
Si staccò dalla parete della galleria ed entrò nello studio del padre. L'ultimo diario era nel ripostiglio. E là, una decina di pagine dopo quella che aveva creduto essere l'ultima, lesse:
13 maggio 1973, Siviglia
Sono così inferocito che ho dovuto ritornare a questo confessionale nella speranza di ritrovare un po' di calma.
La storia che Falcón aveva sentito da El Zurdo terminava così:
Non riesco a capire perché abbia voluto dirmelo ora ed esco ruggendo dal ristorante. Mi grida dietro: «Se non fosse per me, a quest'ora staresti dipingendo infissi a Triana!» È stato un insulto colossale e calcolato per il quale riceverà una punizione appropriata.
17 maggio 1975, Siviglia
Un poscritto al mio ultimo sfogo. Ho scoperto che il mio vecchio amico R. è già stato punito. Sembra che il figlio più piccolo sia morto ad Almería, che sua moglie si sia suicidata gettandosi nel Guadalquivir qui a Siviglia, che sua figlia, Marta, sia finita in un istituto per malati di mente a Ciempozuelos e che il figlio maggiore viva a Madrid e non voglia più avere rapporti con lui. Dopo queste tragedie, qualsiasi cosa io avessi in mente sembra nulla. Ora credo che l'abbia detto solo per liberarsi di me. Io ero per lui soltanto un altro reperto di quell'era sciagurata.
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