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Mario Stern: Il sergente nella neve

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Mario Stern Il sergente nella neve

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Intanto il grosso della colonna si avvicina a noi. Nel cielo appaiono tre enormi aeroplani, anzi quattro, e si abbassano a mitragliare i nostri compagni. Vediamo le fiammelle che escono da tutte le armi di bordo e la colonna che si sbanda e si sparpaglia. Gli aeroplani risalgono la colonna e poi s’allontanano e ritornano ancora a mitragliare e vanno in giú verso la coda che come una linea nera si perde nella steppa.

Dicono, e continuano a dire, che a Nikolajewka vi siano state tre divisioni di russi. Ma, a giudicare da come le cose si svolsero, io credo di no. Il Vestone, il Valchiese, l’Edolo, il Tirano devono andare all’attacco. La nostra artiglieria s’è piazzata. Il colonnello e il generale consultano le carte e quindi chiamano a rapporto i comandanti di battaglione. Noi del Vestone dobbiamo attaccare a destra. Il luogo di ritrovo è la piazza davanti alla chiesa.

Preparazione di artiglieria non se ne può fare perché vi sono poche munizioni. I bravi artiglieri sono desolati.

Ritrovo Rino. Lo saluto come se si fosse sulla piazza del nostro paese. – A stasera, – gli dico. Saluto gli altri paesani: – In gamba ragazzi, – dico loro. – E conservate sempre la calma.

Con Cenci e Moscioni fumo l’ultima sigaretta. Il capitano ci osserva uno per uno. Infine ci muoviamo. Il mio plotone è l’ultimo a destra. Il capitano è tra il mio e il plotone di Cenci. Poi vengono gli altri. Come usciamo allo scoperto siamo subito accolti da colpi anticarro e da colpi di mortaio.

I miei uomini esitano, si tengono indietro, vi è già qualche ferito e grido: – Avanti, avanti, venite avanti –.

Anch’io esito un poco, ma ormai ci siamo dentro e sarà quel che sarà. Il capitano grida: – Avanti, avanti! – I miei compagni cominciano a seguirmi, e Antonelli e qualche altro mi sorpassano. Ho con me la pesante, ma non abbiamo munizioni.

Dovrebbe portarne giú la squadra di Moreschi. Ma Moreschi ha un po’ paura e i suoi uomini sono come lui. Lo chiamo: – Venite giú; venite avanti, ormai è tutto lo stesso –. I colpi arrivano attorno a noi sprofondando nella neve. Si continua ad avanzare. Il capitano impugna un mitra russo e indicando il paese grida: – Avanti! avanti!

In questo momento penso con accoramento a Rino, e guardo dove sta scendendo il suo reparto. Ora sparano anche con le mitragliatrici; le pallottole si infilano miagolando nella neve accompagnandoci passo per passo.

Qualcuno tra noi è colpito e si abbatte gemendo nella neve. Ma non si può nemmeno fermarsi a vedere chi è.

Grido di sparpagliarci. Ma è inutile perché quando il pericolo è maggiore viene naturale il contrario. Il capitano mi grida di portarmi piú a destra e in alto. C’è una leggera depressione da superare. Cosí formiamo un bersaglio nitidissimo, con il sole in faccia e d’infilata alle mitragliatrici. Vedo Cenci accasciarsi sulla neve e sento che dice forte: – Mi hanno ferito a tutte e due le gambe –.

Due alpini del suo plotone lo riportano indietro. Dovranno risalire allo scoperto fin dove è la colonna. Chissà se arriveranno vivi. Ma aveva la pelle dura Cenci, e l’ho ritrovato sei mesi dopo in Italia.

Il caporalmaggiore Artico prende subito il comando del plotone e davanti a tutti grida: – Secondo e terzo plotone avanti! – Un’arma automatica mi ha preso di mira, spara raffiche brevi e precise: «Ecco, – penso trattenendo il fiato, – adesso muoio». E trattengo il fiato: adesso muoio. Mi allungo in un piccolo avvallamento nella neve e le pallottole battono lí attorno sollevando spruzzi. La saliva mi si impasta in bocca. Non so che cosa penso o che cosa faccio, guardo gli spruzzi di neve a un palmo dalla mia testa. Antonelli e qualche altro mi sorpassano a dieci metri, allora mi alzo e vado ancora avanti.

Guardando a sinistra vedo il reparto del genio muovere all’assalto di un cannone anticarro che sparava su di noi. Dopo un lancio di bombe a mano e una breve mischia il cannone è preso. Quei genieri hanno lo slancio dei primi combattimenti. Sarà perché non ne hanno avuti prima. Io invece mi sento tanto vecchio di guerra al loro confronto.

Ci avviciniamo alla scarpata della ferrovia dietro a cui sono trincerati i russi. Col mio plotone stringo verso il centro. Trovo il sergente Minelli del plotone di Moscioni; perde sangue da varie ferite leggere alla testa e alle braccia; ma ha le gambe fracassate da un colpo anticarro. Si lamenta e piange: – El me s’cet, – dice, – el me s’cet-. Gli faccio coraggio come posso. – Non sei grave,

– gli dico. – Animo Minelli, dietro vi sono i portaferiti, ti verranno a prendere –. So che mentisco, chissà dove diavolo saranno i portaferiti. Forse lassú a vedere come andrà. Ma Minelli mi crede. Mi saluta, mi sorride anche tra le lacrime. Io vorrei fermarmi con lui ma non posso, i miei uomini mi aspettano alla scarpata e Antonelli mi chiama. Minelli riprende a dire: – Il mio bambino, il mio bambino –. E piange.

Spariamo dall’orlo della scarpata; Moscioni ha imbracciato il mitragliatore e spara; spariamo anche con la pesante a dei russi che si ritirano. Ora, qui dietro, possiamo un po’ tirare il fiato; ma siamo in pochi. Guardando per dove siamo scesi si vedono tante macchie nere sulla neve. Ma so anche che nella mia compagnia ve ne sono che si son finti morti per non venire all’assalto. Ora bisogna uscire dal nostro riparo. Inastiamo la baionetta.

Il capitano controlla il funzionamento del suo mitra russo, soffia nella canna e poi mi guarda: – Corajo paese, – mi dice, – la xe l’ultima –. Ci dà gli ordini: – Tu, Rigoni, vai con i tuoi uomini per quella strada. Tu, – dice poi a Moscioni, – vai in un primo tempo con Rigoni e poi gira a sinistra all’altezza di quell’isba. Pendoli, con il plotone comando, e Artico con il secondo e il terzo vengono con me. Andiamo –. Scavalchiamo la ferrovia, siamo accolti da qualche raffica ma ci buttiamo giú per l’altro versante. Io non incontro molta resistenza, il capitano coi suoi due plotoni ne incontra di piú ma poi cedono anche quelli. Alla mia destra noto dei russi vestiti di bianco ma non me ne curo e continuo ad andare avanti. Ora spara anche la nostra artiglieria; vedo russi che corrono attraverso la piazza del paese.

In una delle prime isbe lascio i feriti. Vi è una donna russa e la prego di averne cura. Inoltre lascio con loro, ad assisterli, Dotti della squadra di Moreschi. Con Antonelli e la pesante entro in un’altra isba. Mi sembra un posto ottimo per piazzarvi l’arma. Un soldato del mio plotone mi segue con una cassetta di munizioni. Sfondo una finestra con il calcio del fucile e trascino lí il tavolo coperto da una tovaglia ricamata. Sopra il tavolo postiamo l’arma e spariamo dalla finestra. I russi sono a un centinaio di metri, di schiena. Li cogliamo di sorpresa, ma dobbiamo fare economia di munizioni. Mentre spariamo i ragazzini dell’isba si stringono piangendo alle gonne della mamma. La donna, invece, è calma e seria.

Ci guarda silenziosa.

Durante una pausa vedo spuntare di sotto a un letto gli stivali di un uomo. Sollevo la coperta e lo faccio venir fuori. È un vecchio alto e magro che si guarda attorno spaurito come una volpe nella tagliola. Antonelli ride e poi fa il gesto di dargli un calcio nel sedere e lo manda dov’è la donna coi bambini.

Spariamo qualche raffica a un gruppo di russi che stanno trascinando un cannone anticarro. Non ci restano piú che tre caricatori.

Usciamo dall’isba e incontriamo Menegolo che veniva in cerca di noi con una cassetta di munizioni. Mi irrito perché non vedo comparire Moreschi con le altre cassette. Antonelli e Menegolo postano l’arma all’angolo di un’isba; io un po’ piú avanti, alla loro destra, indico dove devono sparare e sparo con il moschetto attraverso le fessure di uno steccato. Siamo sempre quasi alle spalle dei russi e rechiamo loro molto fastidio. Spero intanto che la colonna si decida a scendere da dove l’abbiamo lasciata ferma. Dopo un po’ che spariamo i russi riescono a individuarci e un colpo d’anticarro porta via l’angolo dellíisba pochi centimetri sopra alla testa di Antonelli. – Spostiamoci, – gli grido. Ma Antonelli si mette a cavallo del treppiede e dice: – Adesso li ho proprio di mira –. E spara ancora.

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