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Mario Stern: Il sergente nella neve

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Mario Stern Il sergente nella neve

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Ora è guarito della ferita ma non delle altre cose. Oh no, non si può guarire. E anche il generale Martinat è morto quel giorno. Lo ricordo quando in Albania lo accompagnavo per le nostre linee. Io camminavo in fretta davanti a lui perché conoscevo la strada e mi guardavo indietro per vedere se mi seguiva. «Cammina, cammina pure in fretta caporale, ho le gambe buone io». E anche il colonnello Calbo che era cosí bravo con i suoi artiglieri della diciannove e della venti. E anche il sergente Minelli era ferito lí nella neve: – El me s’cet, – diceva e piangeva, – el me s’cet –. Giuanin, troppo pochi siamo arrivati a baita, dopo tutto. Nemmeno Moreschi è ritornato. «Possibile una capra di sette quintali? Porca la mula sempre Macedonia». E neanche Pintossi, il vecchio cacciatore, è arrivato a baita a cacciare i cotorni. E sarà morto pure il suo vecchio cane, ora. E tanti e tanti altri dormono nei campi di grano e di papaveri e tra le erbe fiorite della steppa assieme ai vecchi delle leggende di Gogol e di Gorky. E quei pochi che siamo rimasti dove siamo ora?

Quando mi svegliai trovai che le scarpe mi si erano bruciate ai piedi. Sentii un rumore di gente che si preparava a partire. Non trovai piú nessuno della mia compagnia né del battaglione. Nel buio persi anche Bodei e rimasi solo. Cercavo di camminare piú in fretta possibile perché i russi potevano ritentare di agganciarci. Era ancora notte e c’era un gran trambusto per il paese. Feriti gemevano sulla neve e nelle isbe. Ma io, ormai, non pensavo piú a niente; neanche alla baita. Ero arido come un sasso e come un sasso venivo rotolato dal torrente. Non mi curavo di cercare i miei compagni e, dopo, nemmeno di camminare in fretta. Proprio come un sasso rotolato dal torrente. Piú niente mi faceva impressione; piú niente mi commoveva. Se fosse accaduto di combattere ancora sarei andato avanti, ma per conto mio; senza curarmi di quelli che mi avrebbero seguito o sorpassato.

Avrei fatta la battaglia per mio conto; personalmente; isolato; da isba a isba, da orto a orto; senza ascoltare comandi, senza darne, libero di tutto, come per una caccia in montagna; da solo.

Avevo ancora dodici colpi per il moschetto e tre bombe a mano. Ve n’erano pochi, forse, in tutta la colonna che avevano tante munizioni quante ne avevo io.

Un’altra giornata di cammino sulla neve. Le scarpe bruciate vanno in pezzi e me le saldo attorno ai piedi con del filo di ferro e stracci. Camminando il cuoio secco mi ha rotto la pelle sotto il malleolo e ha formato una piaga viva. Le ginocchia mi dolgono; a ogni passo che muovo fanno cric crac. Mi viene anche la dissenteria.

Cammino senza dire una parola con nessuno per chilometri e chilometri.

Ora la colonna procede a monconi. I piú validi camminano in fretta, gli altri come possono. Io non sono tra questi, ma neanche tra i piú validi, ormai. Vado per conto mio.

Un altro giorno di cammino sulla neve. Lungo la pista sono abbandonati i cannoni dell’artiglieria alpina. È giusto; è inutile portarli, è giusto che i muli siano adoperati per i feriti. Capita ogni tanto di sentire delle brevi discussioni tra artiglieri alpini e tedeschi. Dei tedeschi, chissà come, erano riusciti a impossessarsi dei nostri muli che ora certamente valevano piú delle loro macchine. Soltanto noi avevamo muli. Ma gli alpini e gli artiglieri discutono poco; fermano i muli e fanno scendere i tedeschi. Si riprendono le brave bestie e vanno via. Hanno i loro paesani feriti da caricarci sopra. Di fronte alla pacatezza degli alpini l’ira dei tedeschi era ridicola.

Era molto lunga quel giorno la marcia. Non si vedeva nessun paese da nessun lato e bisognava camminare. Si mangiavano manciate di neve. Venne la notte. Ancora non ci si fermava né si vedeva un paese. Finalmente, lontano, una luce, e non pareva mai di arrivarci. Lo potete immaginare, voi, quanto era lontana quella luce e quanta neve bisognava calpestare per arrivarci? Fu interminabile nella notte. Era un villaggio. Non so dove andai a dormire né con chi; né se mangiai. Alla mattina quando ripartii c’era il sole. La maggior parte erano già andati; ero con gli ultimi; le isbe erano vuote e i fuochi si spegnevano. Ricordo che entrai in un’isba; per terra c’erano delle bucce di patate arrostite tra la cenere e le mangiai.

Ero sempre solo.

Una sera incontrai in un’isba dei soldati del mio battaglione. Mi riconobbero. Uno era congelato alle gambe. Alla mattina quando ripartimmo aveva le gambe nere per la cancrena e piangeva. Non poteva piú venire con noi né si trovò una slitta per caricarlo. Lo raccomandai alle donne dell’isba. Piangeva e anche le donne piangevano. – Addio Rigoni, – mi disse. – Ciao sergentmagiú.

Io sono sempre solo. Un giorno trovo sulla neve una tavoletta gialla; la raccolgo e mangio. Sputo subito.

Chissà che diavolo è. Lo sputo è giallo. Ha un gusto tremendo. Sputo e sputo giallo, mangio neve e sputo giallo, dove cade lo sputo la neve attorno si fa gialla. Per tutto il giorno ho sputato giallo e per tutto il giorno ho avuto quel sapore in bocca. Chissà che diavolo era quella roba; forse anticongelante per i motori o esplosivo. Ma sono solo e non m’importa del mio sputo giallo sulla neve né della dissenteria.

Una notte mi fermo a dormire con alcuni ufficiali del Valchiese. Entro nell’isba, parlo bresciano e dico che sono del loro battaglione. Mi accettano nella loro compagnia. Accendo il fuoco nel forno e un soldato porta dentro una capra. L’ammazzo e la faccio a pezzi per arrostirla nel forno. Troviamo anche un po’ di sale. Faccio le razioni e mangiamo tutti lí dentro, saremo una quindicina. Gli altri a vedermi cosí intraprendente e pratico mi prendono in simpatia. Ma faccio tutto come un automa. Trovo anche della paglia e dopo aver mangiato la capra ci addormentiamo al caldo. Alla mattina mi sveglio per primo ed è ancora buio. – Sveglia, – dico,

– dobbiamo partire se no rimaniamo gli ultimi –. Ma non si vogliono alzare, vogliono dormire ancora. Esco solo e cammino nella colonna che si è già avviata.

Un pomeriggio si arriva in un villaggio, la colonna è avanti: sono tra gli ultimi. Da una mugila vedo la colonna che avanza a zigzag per la steppa e poi degli aeroplani che sorvolano e mitragliano. Nel villaggio vi sono gruppetti di due tre persone che vanno per le isbe in cerca di cibo. Nella piazza vi sono dei colombi. Penso di sparare a uno e poi mangiarlo. Levo dalla spalla il moschetto, abbasso la sicurezza e miro da venti passi. Il colombo s’alza per volare e allora sparo. Quello cade giú fulminato senza battere le ali. Di essere un discreto tiratore lo sapevo, ma non sino al punto di colpire un colombo al salto con fucile a pallottola. Mi stupisco, certo è stato un caso. Mi riprendo un po’ e sorrido di soddisfazione. Un vecchio russo che mi osserva da poco lontano si avvicina ed esprime la sua meraviglia. Scuote la testa incredulo e indica il colombo morto; poi lo prende in mano, osserva il foro della pallottola che lo ha passato da parte a parte e conta i passi da dove ho sparato. Mi dà il colombo e mi stringe la mano. Mi commuovo un poco. È un vecchio cacciatore come lo zio Jeroska.

Entro in un’isba per cucinare il colombo e levo la gavetta che porto infilata nella cinghia delle giberne. Lí vi sono due soldati italiani ma nessun borghese. Piú tardi entrano degli ufficiali giovani e disarmati. Dopo aver mangiato il colombo faccio per riprendere il moschetto che avevo appoggiato al muro ma non lo trovo piú. Il mio vecchio moschetto di tante battaglie, che funzionava cosí bene, che sparava cosí bene e che avevo cosí caro. Chi me lo aveva preso?

Gli ufficiali non c’erano piú, non posso dire che me lo avessero preso loro. Ma lo penso. Rimasi male, veramente male. Ora che si era sfuggiti all’accerchiamento, i disarmati, ed erano i piú, cercavano di prendere le armi a quelli che le avevano tenute fino allora. Non volevo né potevo ritornare dai miei compagni disarmato, avevo buttato l’elmetto, la maschera antigas, lo zaino, bruciate le scarpe, persi i guanti ma il mio vecchio moschetto lí avevo sempre tenuto con me. Avevo ancora i caricatori e le bombe a mano. Nell’isba c’era un fucile pesante e rozzo. Presi quello: le cartucce andavano bene. Quando uscii sentii degli spari vicino al paese e delle grida. Erano partigiani o soldati regolari che attaccavano gli ultimi sbandati della colonna. Per non rimanere prigioniero corsi in fretta, come potevo, tra gli orti e le isbe dietro gli steccati e poi nella steppa finché raggiunsi la colonna.

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