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Mario Stern: Il sergente nella neve

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Mario Stern Il sergente nella neve

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Vi è di nuovo adunata. Stavolta è davanti alla chiesa.

Si vedono abbandonati dei camion italiani carichi di sacchi di patate secche tagliate a fette e mi riempio le tasche di queste. Sulla neve vi sono pure due botti di vino. Una è sfondata con dentro il vino gelato tutto a scaglie rosse.

Mi riempio la gavetta di scaglie rosse e me ne metto qualcuna in bocca. Un ufficiale dice: – State attenti, potrebbe essere avvelenato –. Ma non era affatto avvelenato.

I tedeschi si prendono tutti i prigionieri russi che abbiamo fatto, si allontanano e poi sentiamo numerose raffiche e qualche colpo. Nevica.

Si riprende a camminare. I reparti si confondono fra loro. Si alza un forte vento freddo. Siamo tutti bianchi.

Il vento sibila tra l’erba secca, la neve punge il viso. Ci attacchiamo uno all’altro. I muli degli artiglieri sprofondano sino alla pancia, ragliano e non vogliono andare avanti. Bestemmie, richiami, urli nella tormenta.

Un’altra notte in un altro villaggio. Non sono isbe quelle laggiú vicino a quegli alberi? Cammino solo in quella direzione; sprofondo nella neve sino al petto e avanzo come se nuotassi sognando un’isba. Raggiungo il punto dove credevo che fossero le isbe e non trovo che ombre. Ombre di che cosa? Torno indietro. Ma poi di nuovo ho l’impressione di vedere delle isbe. E vado da quella parte fino alla riva di un fiume. Anche qui però non c’è niente, ci sono solo tre betulle cariche di ghiaccioli che tendono i rami irsuti di ghiaccio al cielo carico di stelle. Piango in riva al fiume gelato. Dove sono i miei compagni? Avrò la forza di ritornare da loro? Li ritrovo in un edificio di mattoni. Il paese non era che a poche centinaia di metri e io avevo camminato nella direzione opposta. Fa freddo e quel po’ di fuoco che abbiamo acceso manda piú fumo che altro. La stanza è occupata in gran parte da un mucchio di grano. Ci sdraiamo sul grano, tutti sporchi di neve e con le coperte gelate. Sono innumerevoli giorni che non mi tolgo le scarpe e ora me le tolgo per farne sciogliere il ghiaccio e asciugarle. Subito i piedi mi si gonfiano. Le calze non le levo per la paura di vedermi i piedi bluastri con la pelle che si stacca. Mi addormento. Un bagliore improvviso e scoppi di bombe a mano ci svegliano di soprassalto. «Ci siamo», penso.

Non sono capace di mettermi le scarpe che trovo dure come legno. Afferro il moschetto e prendo le bombe a mano. Chi urla, chi piange, uno rompe i vetri della finestra e salta giú scalzo nella neve della strada. Striscio via sul mucchio del grano ad appostarmi dietro la finestra.

C’è un grande incendio, il paese ne è tutto illuminato.

Vedo gente correre tra le fiamme, altri che ne escono e si buttano fra la neve. Entra da noi il tenente Pendoli: –

Non è un attacco, – grida; – non sono i partigiani –. I fuochi accesi dai soldati per scaldarsi hanno provocato l’incendio della chiesa e le munizioni che erano nella chiesa stanno scoppiando. La spiegazione riporta la calma e ritorniamo a sdraiarci sul grano.

Attraverso la finestra senza piú vetri entra un terribile freddo e si vede la neve tutta rossa come inzuppata di sangue.

Che giorno sarà oggi? Vedo che c’è un bel sole e che il cielo è rosa. Sembra una di quelle giornate di marzo che preannunziano la primavera. Giornate piene di speranza. Ci fermiamo, c’è una breve sosta. Con Tourn, Antonelli e Chizzarri canto in piemontese: «All’ombra di un cespuglio, bella pastora che dormiva». Cantiamo tranquillamente e con convinzione, e non siamo pazzi.

Cammina, cammina, ogni passo che facciamo è uno di meno che dovremo fare per arrivare a baita. Attraversiamo un villaggio piú grande dei soliti e con qualche casa in muratura. Si vede che ormai usciamo dalle steppe.

Ci stiamo addentrando nell’Ucraina.

Ogni tanto un soldato corre in una casa e ne torna fuori con un favo di miele biondo. Un soldato del mio plotone ha portato a Cenci un secchio pieno di latte e miele. Cenci beve avidamente. Si direbbe che la bevanda, appena penetrata nello stomaco si tramuti subito in sangue. Ne bevo anch’io. La strada è fiancheggiata di isbe, per chilometri. Ma la maggior parte delle isbe sono chiuse, in quelle aperte non si trova niente. In lontananza risuonano spari. Possono essere partigiani, e affretto il passo lungo la colonna per raggiungere la mia compagnia. Mentre passo vengo insultato e un ufficiale di artiglieria dice: – Sempre cosí questi sbandati.

Sempre i primi ad arraffare e sempre gli ultimi dove c’è da combattere –. Egli mi dà una spinta. – Sono del Vestone, – io gli dico, – sto cercando il mio plotone. Mi chiamo Rigoni. – Rigoni tu? – dice l’ufficiale e ride. È un sottotenente del gruppo Vicenza che mi ha conosciuto in Albania.

La colonna si è fermata. Il maggiore Bracchi e altri ufficiali che sono in testa vengono investiti da una raffica di mitra. Un ufficiale di artiglieria è ferito a un piede.

Bracchi mi grida di portare avanti la pesante. Da un cortile spariamo ai russi che passano di corsa davanti a noi.

Di fianco alla mia pesante è piazzata una vecchia Fiat azionata dagli artiglieri. Sparano bene anche loro. Nel cortile vi sono molti ufficiali superiori che ci osservano.

Mi sembra di essere agli esami di caporale e divento rosso quando l’arma, sprofondando nella neve, mi sposta il tiro e spara troppo corto.

I russi scendono in una balca e si dileguano. Nell’isba vicina è sdraiato sul tavolo il tenente ferito. Lo trovo che scherza con gli altri ufficiali. Vi è anche il generale. Una donna russa porta caffè a tutti e ne dà una tazzina anche a me. Pure la raffica di mitra dev’essere partita da questa stessa casa.

Il grosso della colonna si ferma nel villaggio e noi del Vestone con una batteria alpina, proseguiamo verso un altro villaggio situato a destra sopra una mugila. Vi arriviamo che è notte. Vi entriamo con precauzione, a squadre distanziate, e prendiamo posto nelle isbe. Siamo comodi, un plotone per isba; e il mio, da cinquanta uomini, è ridotto a meno di venti. Troviamo patate, miele, galline, ci prepariamo la cena spensieratamente.

Avremo una buona serata, a quel che sembra, e potremo anche fare una buona dormita.

Rino è in un’isba vicino alla mia, con altri paesani, Renzo, Adriano, Guzzo. Il loro reparto è stato aggregato al mio battaglione in sostituzione di una compagnia rimasta prigioniera. Tornando dalla visita che faccio loro trovo la cena quasi finita e la paglia già stesa per il riposo. Un giovane russo dai lineamenti del viso delicati e nobili si dà attorno per aiutarci; porta dentro legna da ardere, porta fuori tavole e panche per far posto, prepara ciotole e cucchiai. Cammina sciancato e curvo, con le mani che quasi toccano terra e ride continuamente.

Mentre l’osservo mi si avvicina Giuanin a dirmi sottovoce: – Sergentmagiú, qui fuori c’è la paglia piena di armi

–. Esco a vedere. È proprio vero. Sotto un pagliaio vicino allíisba trovo fucili automatici e bombe. Quando rientriamo il giovane sciancato è scomparso. I miei compagni dicono che dev’essere un partigiano in gamba.

Viene il 26 gennaio 1943, questo giorno di cui si è già tanto parlato. È l’aurora. Il sole che sta sorgendo dal basso orizzonte ci manda i suoi primi raggi. Il biancore della neve e il sole abbagliano gli occhi. Abbiamo con noi dei panzer tedeschi.

Una slitta fugge veloce in lontananza, da un carro tedesco partono alcuni colpi e la slitta salta in aria. Ci fermiamo piú avanti ad aspettare il grosso della colonna.

Affacciandoci ad una dorsale vediamo giú un grosso villaggio che sembra una città: Nikolajewka. Ci dicono che al di là c’è la ferrovia con un treno pronto per noi. Saremo fuori dalla sacca se raggiungiamo la ferrovia. Guardiamo giú e sentiamo che questa volta è veramente cosí.

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