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Mario Stern: Il sergente nella neve

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Mario Stern Il sergente nella neve

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Il tenente Danda con qualche soldato della cinquantaquattro (credo) vuole attraversare la strada e venire dove siamo noi, ma da una casa vicina partono dei colpi e rimane ferito a un braccio.

La nostra artiglieria non spara piú da un pezzo. Avevano pochi colpi, li avranno sparati tutti. Ma perché non scende il grosso della colonna? Che cosa aspettano? Da soli non possiamo andare avanti e siamo già arrivati a metà del paese. Potrebbero scendere quasi indisturbati ora che abbiamo fatto ripiegare i russi e li stiamo tenendo a bada. Invece c’è uno strano silenzio. Non sappiamo piú niente nemmeno degli altri plotoni venuti all’attacco con noi.

Compresi gli uomini del tenente Danda saremo in tutto una ventina. Che facciamo qui da soli? Non abbiamo quasi piú munizioni. Abbiamo perso il collegamento con il capitano. Non abbiamo ordini. Se avessimo almeno munizioni! Ma sento anche che ho fame, e il sole sta per tramontare. Attraverso lo steccato e una pallottola mi sibila vicino. I russi ci tengono d’occhio. Corro e busso alla porta di un’isba. Entro.

Vi sono dei soldati russi, là. Dei prigionieri? No. Sono armati. Con la stella rossa sul berretto! Io ho in mano il fucile. Li guardo impietrito. Essi stanno mangiando attorno alla tavola. Prendono il cibo con il cucchiaio di legno da una zuppiera comune. E mi guardano con i cucchiai sospesi a mezz’aria. – Mniè khocetsia iestj, – dico. Vi sono anche delle donne. Una prende un piatto, lo riempie di latte e miglio, con un mestolo, dalla zuppiera di tutti, e me lo porge. Io faccio un passo avanti, mi metto il fucile in spalla e mangio. Il tempo non esiste piú. I soldati russi mi guardano. Le donne mi guardano. I bambini mi guardano. Nessuno fiata. C’è solo il rumore del mio cucchiaio nel piatto. E d’ogni mia boccata. –

Spaziba, – dico quando ho finito. E la donna prende dalle mie mani il piatto vuoto. – Pasausta, – mi risponde con semplicità. I soldati russi mi guardano uscire senza che si siano mossi. Nel vano dell’ingresso vi sono delle arnie. La donna che mi ha dato la minestra, è venuta con me come per aprirmi la porta e io le chiedo a gesti di darmi un favo di miele per i miei compagni. La donna mi dà il favo e io esco.

Cosí è successo questo fatto. Ora non lo trovo affatto strano, a pensarvi, ma naturale di quella naturalezza che una volta dev’esserci stata tra gli uomini. Dopo la prima sorpresa tutti i miei gesti furono naturali, non sentivo nessun timore, né alcun desiderio di difendermi o di offendere. Era una cosa molto semplice. Anche i russi erano come me, lo sentivo. In quell’isba si era creata tra me e i soldati russi, e le donne e i bambini un’armonia che non era un armistizio. Era qualcosa di molto piú del rispetto che gli animali della foresta hanno l’uno per l’altro. Una volta tanto le circostanze avevano portato degli uomini a saper restare uomini. Chissà dove saranno ora quei soldati, quelle donne, quei bambini. Io spero che la guerra li abbia risparmiati tutti. Finché saremo vivi ci ricorderemo, tutti quanti eravamo, come ci siamo comportati. I bambini specialmente. Se questo è successo una volta potrà tornare a succedere. Potrà succedere, voglio dire, a innumerevoli altri uomini e diventare un costume, un modo di vivere.

Tornato tra i miei compagni appendiamo il favo di miele al ramo di un albero e un pezzo per uno ce lo mangiamo tutto. Io poi mi guardo attorno come risvegliandomi da un sogno. Il sole scompare all’orizzonte. Guardo l’arma e i due caricatori che ci sono rimasti.

Guardo per le strade deserte del paese, e mi accorgo che da una di esse avanza verso di noi un gruppo di armati.

Sono vestiti di bianco e procedono con sicurezza. Sono nostri? Sono tedeschi? Sono russi? Giunti a qualche decina di metri da noi si fermano e ci guardano. Sono incerti anche loro. Poi sentiamo che parlano. Sono russi.

Ordino in fretta di seguirmi e mi butto tra le isbe e gli orti. Antonelli e Menegolo mi vengono dietro con l’arma. Tutti mi guardano perplessi come se aspettassero di vedermi compiere un miracolo. Mi rendo conto che la situazione è disperata. Ma non ci passa per la testa di darci prigionieri. Un alpino, di non so quale compagnia, ha un fucile mitragliatore ma non munizioni; un altro mi si avvicina e dice: – Ho piú di cento colpi –. Sporgendomi di sopra a uno steccato sparo un paio di caricatori con il mitragliatore a un gruppo di russi poco lontani e poi passo l’arma a un alpino: – Spara, – gli dico. Da sopra lo steccato l’alpino spara ma poi mi cade rantolando ai piedi, colpito alla testa. Riprendo a sparare con il mitragliatore e i russi si diradano. I cento colpi sono già finiti. Anche Antonelli ha finito le munizioni e ora smonta la pesante e ne disperde i pezzi nella neve. La nostra compagnia perde cosí la sua ultima arma.

Siamo meno di una ventina di uomini. – Animo, – dico, – preparate tutte le bombe a mano che avete, gridate, fate baccano e poi seguitemi –. Sbuchiamo fuori dallo steccato. Siamo in quattro gatti ma facciamo baccano per tre volte tanto e le bombe fanno il resto. Non so se siamo stati noi ad aprirci la strada o se i russi ci abbiano lasciato passare; il fatto è che ci siamo messi in salvo.

Raggiungiamo di corsa la scarpata della ferrovia, e ci infiliamo in un condotto che l’attraversa, ma come metto fuori la testa dall’altra parte vedo che lí davanti la neve è coperta di cadaveri. Una raffica mi passa rasente al muso. – Indietro, – grido, – indietro! – Ritorniamo fuori l’uno dopo l’altro da dove siamo entrati. Mi getto in una piccola balca e sempre correndo ne risalgo il fondo. I miei compagni mi seguono. Costeggio una siepe e sento arrivare dei colpi alle nostre spalle. Giungiamo alle isbe di dove, al mattino, tiravano su di noi con gli anticarro.

Ci fermiamo un attimo a riprender fiato e a guardarci.

Ci siamo ancora tutti. Dall’isba piú vicina vedo uscire il tenente Pendoli. – Rigoni, – mi chiama, – Rigoni, venite qui a prendere il nostro capitano che è ferito. – Ma gli altri, – chiedo, – dove sono? – Non c’è piú nessuno, – risponde il tenente Pendoli. – Andiamo a prendere il capitano, – dico ai miei compagni. Ma dalle isbe attorno, e dalle siepi, dagli orti, vengono fuori sparando decine e decine di soldati russi. Molti dei miei compagni cadono, altri corrono verso la breve scarpata della ferrovia, raggiungono le rotaie e lí ricevono un’altra raffica come una grandinata. Ne cadono ancora due o tre. Io mi precipito per unirmi ai rimasti. Le pallottole battono sulle rotaie con rumore di tempesta e mandano scintille, ma riesco a rotolare dall’altra parte. Sono ultimo dietro agli scampati che si arrampicano nella neve. La scarpata della ferrovia ci divide dai russi. Passo vicino a un cannone anticarro e mi fermo per cercare di toglierne l’otturatore e renderlo inservibile. Ma intanto, i russi riappaiono sulla scarpata e mi sparano contro. Allora riprendo a correre in su come posso, sprofondando di continuo nella neve sino al ginocchio. Sono allo scoperto sotto il fuoco dei russi e a ogni passo che faccio arriva un colpo. «Adesso e nell’ora della nostra morte», dico tra di me, come un disco che giri a vuoto. «Adesso e nell’ora della nostra morte. Adesso e nell’ora della nostra morte».

Sento qualcuno che geme e invoca aiuto. Mi avvicino.

È un alpino che era al mio caposaldo sul Don. È ferito alle gambe e al ventre da schegge d’anticarro. Lo circondo con le braccia sotto le ascelle e lo trascino. Ma faccio troppa fatica e me lo carico sulle spalle. I russi ci sparano contro con l’anticarro. Sprofondo nella neve, avanzo, cado, e l’alpino geme. Non ho proprio la forza di continuare a portarlo. Riesco tuttavia a portarlo dove i colpi non arrivano. Del resto i russi smettono di sparare. Dico all’alpino di provarsi a camminare. Egli tenta inutilmente, e ci fermiamo dietro a un mucchio di letame. – Resta qui, gli dico. – Ti mando a prendere con la slitta. E fatti coraggio perché non sei grave.

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