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Mario Stern: Il sergente nella neve

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Mario Stern Il sergente nella neve

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La piaga del piede s’era fatta purulenta e puzzava, camminando ne sentivo l’odore e la calza s’era attaccata.

Mi faceva male: era come se uno mi avesse piantato i denti nel piede e non mollasse. Le ginocchia scricchiolavano, a ogni passo facevano cric crac, cric crac. Camminavo con passo regolare, ma ero lento e anche sforzandomi non ero capace di tenere un’andatura piú svelta. In un orto avevo preso un bastone e mi appoggiavo a quello.

Un’altra notte mi fermai in un’isba dove c’era un tenente medico servito da una guardia ucraina. (Uno di quei borghesi con la fascia bianca sul braccio che facevano servizio per le truppe di occupazione). L’ucraino preparò la minestra di miglio e latte, e me ne diede un piatto. Era proprio buona. Mi levai gli stracci e le scarpe bucate. Le calze erano attaccate alla piaga e l’odore di marcio era proprio fetido. Attorno alla piaga la carne era bianchiccia, sporca di un umore giallo. Lavai con acqua e sale. Fasciai con un pezzo di tela. Rimisi le calze, i resti delle scarpe, gli stracci e legai con il filo di ferro.

In quel villaggio, la sera prima, avevo incontrato Renzo. – Come va, paesano? – gli chiesi. – Va bene, – rispose, – va bene. Guarda, io sono in quell’isba; domani ripartiremo assieme –. E corse via. Lo rividi in Italia. Ero solo, non cercavo nessuno, volevo restar solo. Nell’isba, poi, venne a bussare un tedesco. Vidi che non era uno dei soliti. Entrò da noi e mangiò con noi. Dopo, seduto sulla panca, levò dal portafogli le fotografie: – Questa è mia moglie, – disse, – e questa è mia figlia –. La moglie era giovane e la figlia era bambina. – E questa è la mia casa, – disse poi. Era una casa della Baviera, tra gli abeti, in un piccolo paese.

Camminai ancora un altro giorno con il passo del vecchio viandante appoggiandomi al bastone. Per delle ore mi sorprendevo a ripetere: «Adesso e nell’ora della nostra morte», e questo pensiero mi ritmava il passo. Lungo la pista s’incontravano spesso delle carogne di mulo.

Un giorno stavo tagliandomi un pezzo di carne da una carogna quando mi sentii chiamare.

Era un caporalmaggiore del battaglione Verona che avevo avuto per allievo a un corso rocciatori nel Piemonte. Mi chiama e vedo che è contento d’incontrarmi.

– Vuoi che camminiamo assieme? – dice. Per me. Andiamo, – dico.

Due o tre giorni camminai con lui. Al corso rocciatori lo chiamavamo Romeo perché una notte era andato a trovare una pastora scalando la finestra. (Era proficuo il corso rocciatori). Romeo e lei Giulietta. Era recluta e lo canzonavamo per questo. Un’altra sera che eravamo in un rifugio tra i ghiacciai scese al paese per trovarla e camminò tutta la notte. La mattina dopo c’era da scalare una vetta ed era stanco ma il tenente Suitner lo caricò bene di corde e di attrezzi. Ora, qui in Russia, avevo sentito dire che era un caporalmaggiore tra i migliori del Verona. Camminando parlavo poco con lui, ma la sera, quando si arrivava nelle isbe, ci aiutavamo scambievolmente per preparare qualcosa da mangiare e la paglia per dormire.

Il sole incominciava a farsi sentire, le giornate si erano allungate. Si camminava in una vallata lungo il corso di un fiume. Si sentiva dire che ormai eravamo fuori dalla sacca e che un giorno o l’altro saremmo entrati nelle linee tedesche. Quelli che s’erano attardati alla fine della colonna dicevano che i soldati russi, i carri armati e i partigiani ogni tanto tagliavano la coda e facevano dei prigionieri.

Al passaggio d’una balca, v’erano un giorno delle slitte di feriti bloccate nella neve. Romeo e io si camminava fuori dalla pista per conto nostro. Il conducente e i feriti di una slitta chiedevano aiuto. C’era tanta gente lí attorno ma mi pareva che si rivolgessero proprio a noi. Mi fermai.

Mi guardai un po’ indietro e ripresi a camminare. Dopo, girandomi ancora, vidi che le slitte s’erano mosse. Ero solo; non cercavo nessuno, non volevo niente.

Un giorno passiamo per un villaggio; c’è ancora il sole alto, dalle finestre di un’isba delle donne battono sui vetri e ci fanno cenno di entrare. – Entriamo? – domanda il mio compagno. – Entriamo, – dico. L’isba è bella con tendine ricamate alle finestre e le icone adornate con fiori di carta. Tutto è pulito e caldo. Le donne fanno bollire due galline per noi, ci dànno da bere il brodo e mangiare la carne con patate lessate. Dopo ci preparano da dormire. Verso sera entrarono anche dei sottufficiali dell’Edolo. Chiedo a loro di Raul. Cosí per chiedere, perché vedo dalla nappina che sono del suo battaglione.

– È morto, – mi rispondono, – è morto a Nikolajewka.

Andava all’assalto su un carro armato e saltando a terra si prese una raffica –. Io non dico nulla.

Quando alla mattina devo muovere i primi passi sono costretto a fare piano. Cric crac mi fanno le ginocchia.

Piano piano fino a che si riscaldano e poi continuare il cammino appoggiandomi al bastone. Il mio compagno ha pazienza e viene con me silenzioso. Come due vecchi viandanti che si sono messi insieme senza conoscersi.

Nella colonna si sente sovente imprecare e litigare.

Siamo diventati irascibili, nervosi, per una cosa da nulla si trova da dire.

Un giorno entriamo in una capanna; abbiamo sentito lí dentro cantare un gallo. Vi sono molte galline, ne prendiamo una per ciascuno. Camminando le spenniamo per mangiarle alla sera. Un aeroplano tedesco «Cicogna» è atterrato vicino alla colonna; vengono caricati dei feriti. Tra qualche ora quelli saranno all’ospedale.

Ma non m’importa niente di nulla.

Incontriamo dei soldati tedeschi che non erano con noi nella sacca. Sono di un caposaldo e ci aspettavano.

Sono lindi e ordinati. Un ufficiale di questi osserva all’orizzonte attorno attorno con il binocolo. Siamo fuori, tento di pensare. Ma non provo nessuna emozione nemmeno quando troviamo delle tabelle segnavia scritte in tedesco.

Al lato della pista si è fermato un generale. È Nasci, il comandante del corpo d’armata alpino. Sí, è proprio lui che con la mano alla tesa del cappello ci saluta mentre passiamo. Noi, banda di straccioni. Passiamo davanti a quel vecchio dai baffi grigi. Stracciati, sporchi, barbe lunghe, molti senza scarpe, congelati, feriti. Quel vecchio col cappello d’alpino ci saluta. E mi sembra di rivedere mio nonno.

Sono camion italiani quelli laggiú, sono i nostri Fiat e i nostri Bianchi. Siamo fuori, è finita. Ci sono venuti incontro per caricare i feriti e i congelati o chiunque voglia saltarci sopra. Guardo i camion e passo oltre. La mia piaga puzza, le ginocchia mi dolgono, ma continuo a camminare sulla neve. Delle tabelle indicano: 6¡ alpini; 5¡ alpini; 2¡ artiglieria alpina. Battaglione Verona, e il mio compagno se ne va senza che me ne accorga. Battaglione Tirano, battaglione Edolo, gruppo Valcamonica e la colonna si assottiglia. 6¡ alpini, battaglione Vestone, indica una freccia. Sono del 6¡ alpini io? Del battaglione Vestone? Avanti per di qua allora. Vestone, Vestone, el Vestú. I miei compagni.

«Sergentmagiú ghe rivarem a baita?» Sono a baita. Adesso e nell’ora della nostra morte. – Vecio! Ciao Vecio! – Ma chi è quello? Sí, è Bracchi. Mi viene incontro, mi batte una mano sulla spalla. Si è lavato, si è fatto la barba.— Vai laggiú, Vecio, in quelle isbe troverai la tua compagnia-. Guardo e non dico niente. Lentamente, sempre piú lentamente vado laggiú dove sono quelle isbe. Sono tre, nella prima vi sono i conducenti con sette muli, nella seconda la compagnia e nella terza un’altra compagnia. Apro la porta, nella prima stanza vi sono dei soldati che si stanno radendo e pulendo. Mi guardo attorno. – E gli altri? – dico. – Sergentmagiú! Sergentmagiú! – E arrivato anche Rigoni, – gridano. – E gli altri? – ripeto. C’è Tourn e Bodei, Antonelli e Tardivel. Visi che avevo dimenticato. – E allora è finita? – dico. Sono contenti di rivedermi e qualcosa dentro di me si muove, ma lontano come una bolla d’aria che viene dagli abissi del mare. – Vieni, – dice Antonelli. E mi accompagna nell’altra stanza dove c’è un ufficiale che era alla compagnia comando. – È lui che comanda la compagnia, – dice Antonelli. C’è anche il furiere e su un pezzo di carta annota il mio nome. – Sei il ventisettesimo,

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