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Mario Stern: Il sergente nella neve

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Mario Stern Il sergente nella neve

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Io poi, non mi sono ricordato di mandare giú la slitta, ma i portaferiti della nostra compagnia sono giusto passati di là e lo hanno raccolto. Ho saputo in Italia ch’egli si era salvato, e un gran peso mi è caduto dal cuore. Lo ritrovai un giorno, finito tutto, a Brescia. Non lo riconobbi, ma lui mi vide da lontano, mi corse incontro, mi abbracciò. – Non ricordi sergentmagiú? – Io non lo riconoscevo e lo guardavo. – Non ricordi? – ripeteva, e si batteva con la mano sulla gamba di legno. – Va tutto bene ora –. E rideva. – Non ricordi il 26 gennaio? – Allora mi ricordai e tornammo ad abbracciarci con tanta gente attorno che ci osservava senza capire.

Ora, mentre continuavo da solo il mio cammino nella neve, sento d’un tratto un trambusto e vedo la massa nera della colonna precipitarsi giú per il pendío. Che diavolo fanno? Penso che il fuoco dei russi li sterminerà.

Perché non sono venuti giú prima? Ma vi sono di nuovo degli aeroplani. Mitragliano e lanciano spezzoni. È di nuovo come stamattina. In piú dal paese sparano con gli anticarro e i mortai. Alcuni panzer tedeschi scendono lentamente, guardinghi. Uno è colpito e si ferma, ma continua a sparare con il cannone. Gli altri mi passano vicino. Gruppi di soldati tedeschi li seguono e io mi unisco a loro. Cosí arrivo ancora una volta alle prime case.

Spariamo coi fucili di dietro ai carri. Spiegandomi a cenni cerco di far avanzare un panzer fin dove si trova il capitano ferito. Do loro a intendere che si tratta di un ufficiale superiore. Dopo molte esitazioni i tedeschi cedono alle mie insistenze. Facciamo pochi metri nella direzione che indico loro, e un colpo di anticarro frantuma il periscopio. Il panzer è costretto a fermarsi e dobbiamo rinunciare. Non siamo in numero sufficiente per addentrarci nel paese senza l’appoggio del carro.

Intanto è cominciata la sera. Mi metto dietro alle macerie di una casa sparando contro i russi che passano per gli orti. Sono rimasto solo. Venti metri piú a destra vi è un soldato tedesco che si avvicina, strisciando cauto sulla neve, a due russi appostati dietro un muricciolo. Egli poi lancia due granate su di loro. Io allora corro fino a una casa piú avanti. Dal marciapiede in faccia un soldato russo mi vede e svolta la cantonata per poi prendermi di mira. Io dal mio riparo e lui dal suo ci scambiamo dei colpi di fucile. Un capitano dell’artiglieria alpina che mi viene incontro cade colpito al petto mentre sta per rivolgermi la parola. Ha uno sbocco di sangue che mi chiazza le scarpe e i calzettoni. Arriva il suo attendente. Arriva un altro ufficiale. Piangono su di lui che rantola. Appena poi è morto l’attendente gli toglie dalla tasca il portafogli e dal polso l’orologio. Io non ne posso piú dalla stanchezza e vado a sedermi dietro un piccolo argine.

Un sottotenente mi si avvicina gridando: – Vigliacco, che fai lí? Vieni fuori –. Io non lo guardo nemmeno, e lui finisce che si mette a sedere lí vicino e se ne resta lí anche dopo che io me ne vado.

Vengo a sapere che il tenente colonnello Calbo dell’artiglieria alpina è stato colpito. Lo cerco. Il suo attendente gli sorregge il capo e piange. Il colonnello ha gli occhi velati e già forse non vede piú nulla. Mi parla credendomi il maggiore Bracchi. Non ricordo le parole che mi disse; ricordo solo il suono della sua voce, l’affanno cagionato dalla ferita e lui sulla neve. Qualcosa di grande era nel suo aspetto e io mi sentivo timido e stupito. Intanto i carri dei tedeschi sono tornati ad avanzare.

Alpini e tedeschi si mettono dietro. Le pallottole battono sulla corazza dei panzer e schizzano attorno a noi. Su un carro è accovacciato il generale Reverberi che ci incita con la voce. Poi egli scende e cammina da solo davanti ai carri impugnando la pistola.

Da una casa sparano con insistenza. Da quella sola casa. – Ci sono ufficiali? – grida il generale verso di noi.

Ufficiali forse ve ne sono, ma nessuno esce. – Ci sono alpini? – grida ancora. E allora esce un gruppetto di dietro ai carri. – Andate in quella casa e fatela finita, – ci dice. Noi andiamo e i russi se ne vanno.

é notte fatta, la colonna si è riversata nel paese e tutti cercano un posto per passare la notte al caldo, e, se è possibile, mangiare qualcosa. Che confusione ora! Sembra una fiera. Incontro alcuni genieri e chiedo loro di Rino. Lo hanno visto ferito leggermente ad una spalla durante il primo assalto, da allora non sanno piú nulla.

Lo chiamo e lo cerco senza trovarlo. Incontro il capitano Marcolini e il tenente Zanotelli del mio battaglione.

Con questi mi metto vicino alla chiesa e chiamiamo: –

Vestone! Vestone! Adunata Vestone! – Ma potrebbero rispondere i morti? – Si ricorda Rigoni, il primo di settembre? – mi dice piangendo il tenente. – È come allora.

– È peggio, – dico.

Ai nostri richiami risponde Baroni dei mortai e viene con un gruppetto del suo plotone. Hanno ancora un tubo di mortaio, nessuna bomba, nient’altro. Di tutto il Vestone riusciamo a radunarci in circa una trentina. Le isbe sono tutte occupate e prendiamo posto nelle scuole. Ma qui i vetri sono rotti, non c’è paglia e l’impiantito è di cemento. Ci sdraiamo ma non è possibile dormire. Ci congeleremmo. «La Ecia», alpino della mia compagnia, ha trovato chissà dove delle gallette e me ne dà una. Rosicchiamo assieme. Bodei, che mi è vicino, trema dal freddo. Ci alziamo e usciamo. Busso a un’isba; viene alla porta un soldato tedesco con la pistola spianata e me la punta al petto. – Voglio entrare, – dico. Gentilmente, con la mano, gli sposto la pistola e gli rido in faccia. Sconcertato la rimette nel fodero e mi chiude la porta sul viso. Entriamo in una stalla e accendiamo un piccolo fuoco con degli sterpi. Ci riscaldiamo, ma la parte che non guarda il fuoco è gelata.

I muli ci guardano con le orecchie basse. La testa ci ciondola di qua e di là. Lentamente mi addormento con la schiena appoggiata a un palo.

Questo è stato il 26 gennaio 1943. I miei piú cari amici mi hanno lasciato in quel giorno.

Di Rino, rimasto ferito durante il primo attacco, non sono riuscito a sapere nulla di preciso. Sua madre è viva solo per aspettarlo. La vedo tutti i giorni quando passo davanti alla sua porta. I suoi occhi si sono consumati.

Ogni volta che mi vede, quasi piange per salutarmi e io non ho il coraggio di parlarle. Anche Raul mi ha lasciato quel giorno. Raul, il primo amico della vita militare.

Era su un carro armato e nel saltar giú per andare ancora avanti, verso baita ancora un poco, prese una raffica e morí sulla neve. Raul, che alla sera prima di dormire cantava sempre: «Buona notte mio amore». E che una volta, al corso sciatori, mi fece quasi piangere leggendomi Il lamento della Madonna di Jacopone da Todi. E anche Giuanin è morto. Ecco Giuanin, ci sei arrivato a baita. Ci arriveremo tutti. Giuanin è morto portandomi le munizioni per la pesante quando ero giú al paese e sparavo. È morto sulla neve anche lui che nel ricovero stava sempre nella nicchia vicino alla stufa e aveva sempre freddo. Anche il cappellano del battaglione è morto: «Buon Natale, ragazzi, e pace». È morto per andar a prendere un ferito mentre sparavano. «State sereni e scrivete a casa». «Buon Natale, cappellano». E anche il capitano è morto. Il contrabbandiere di Valstagna.

Aveva il petto passato da parte a parte. I conducenti, quella sera, lo misero su una slitta e lo portarono fuori della sacca. Morí all’ospedale di Carkof. Sono andato a casa sua, quando ritornai in primavera. Ho camminato attraverso i boschi e le valli: «Pronto? Qui Valstagna, parla Beppo. Come va paese?» E la sua casa era vecchia e rustica e pulita come la tana del tenente Cenci. E soldati del mio plotone e del mio caposaldo, quanti ne sono morti quel giorno? Dobbiamo restare sempre uniti, ragazzi, anche ora. Il tenente Moscioni si ebbe bucata una spalla e poi in Italia la ferita non poteva chiudersi.

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