Mario Stern - Il sergente nella neve

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Il sergente nella neve: краткое содержание, описание и аннотация

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Questo è peggio che andare all’attacco. Scendiamo verso il fondo del paese. L’isba è vuota e fredda. Postiamo le armi e cerchiamo di sistemarci alla meno peggio. Accendiamo il fuoco. Ma nevica e le armi s’incrostano subito di ghiaccio. Cosí finirà che non potranno sparare e una la porto dentro, e l’altra la piazzo nel vano tra la porta interna e la porta esterna dell’isba, con la canna rivolta verso la steppa.

Poi il capitano ci manda giú due galline, e le cuciniamo nelle gavette. Ci lasceranno tranquilli, adesso. Mi fermo sulla porta a guardar nevicare e sento rumore di motori nell’aria. Sono aeroplani. Volano bassi ma nella neve non si distingue se sono nostri o russi. Il rumore giunge ovattato. Vedo bene però che se ne staccano delle cose oscure e poi che si aprono dei paracadute. Corro ad avvertire il capitano. Penso che siano dei paracadutisti russi. Sono in molti e scendono lentamente sulla mugila di fronte a noi, al di là dei frutteti. Il capitano guarda e non sa cosa dire. Subito, però, veniamo a sapere che non si tratta di paracadutisti russi ma di munizioni, medicinali, benzina lanciati dai tedeschi.

Ritorno al mio plotone, le due galline sono cotte e le dividiamo in quindici. Ma nemmeno adesso possiamo stare in pace: si è fermata qui davanti una slitta carica di feriti del gruppo Bergamo. Un capitano mi chiede ospitalità. – Le altre isbe sono tutte occupate, – dice, – lasciateci entrare. Siamo feriti –. Intanto è giunta un’altra slitta di feriti e cosí lasciamo a loro il posto e il brodo delle galline.

Proviamo a sistemarci in una piccola stalla lí vicino, ma è aperta ai quattro venti. Il capitano ci manda a dire che poco lontano da noi, a protezione del paese, si è appostato un altro plotone di un’altra compagnia e che noi possiamo ritirarci. Ma dove possiamo andare ora a passare la notte? é già quasi buio. Bussiamo a delle isbe: sono tutte occupate. Finalmente riusciamo a trovare i nostri fucilieri. Ci dànno ospitalità. Ma non ci stiamo tutti: sul tavolo, sotto il tavolo, sulle panche, sotto le panche, sopra il forno, per terra. Mi devo accontentare di restare in piedi vicino al forno. Ma fuori c’è la tormenta ora, e qui fa caldo. Anche troppo caldo L’isba è satura di vapore, di fumo, di odori. Tardivel mi chiede se ho mangiato.

Hanno ammazzato una pecora, e mi dà fegato cucinato con la cipolla nel grasso della pecora. È incredibile quanto sia buono il fegato e che buon compagno sia Tardivel che ha fatto tre anni di Africa e otto di naia alpina.

Cenci, che è con il suo plotone in un’isba di fronte a questa, mi manda a dire che se qui siamo troppo stretti qualcuno può andare da lui. Andiamo in quattro.

Mi allungo sotto il tavolo, distendo le gambe e mi sembra che in nessun altro posto del mondo si possa star bene come qui. Il lume a olio si affievolisce sempre piú; Cenci parla sottovoce con un alpino, si sente frusciar la paglia, il fuoco nel forno e il russare calmo dei primi addormentati. E io penso a una luna grande che illumina il lago, a una strada tutta fiancheggiata da giardini odorosi, a una voce calda, a un riso tintinnante e al rumore delle onde sulla riva. È meglio che allora, fuori c’è la tormenta e mi addormento.

Battono. Battono alla porta. Non in modo brusco, in maniera civile, da città; ma insistentemente. Qualcuno si sveglia e brontola. Il tenente Cenci dice: – Chi sarà? –

Battono e si sente la tormenta. Mi alzo al buio e vado ad aprire. Un soldato italiano, a testa scoperta e senza pastrano, mi guarda tranquillamente. Calmo mi dice: –

Buona sera, ingegnere. È in casa suo padre? – Lo guardo fisso. – Buona sera, – dico. – Volete entrare? – E lui:

– é in casa suo padre, ingegnere? – Sí, – dico; – ma dorme. Che volete? – Sono venuto per gli articoli, – risponde, – raccomando a lei la pubblicazione. Ma ritornerò piú tardi quando suo padre sarà alzato. Arrivederci. Ritornerò piú tardi –. E cosí si allontana tranquillamente a capo chino, le mani dietro la schiena, e sparisce nella tormenta e nella notte. Quando rientro Cenci dice: –

Chi era? – Uno che cercava mio padre, aveva degli articoli da pubblicare, ritornerò piú tardi, ingegnere, buona sera –. Cenci mi guarda in silenzio e mi osserva finché io ritorno a sdraiarmi sotto la tavola.

Ci svegliamo di soprassalto: una pallottola è entrata schiantando i vetri della finestra piantandosi nella parete di fronte sopra la mia testa. – Allarmi! Allarmi! – si sente gridare. – I partigiani! – Usciamo con precauzione. Ombre corrono di qua e di là; le pallottole passano per l’aria come vespe. Mi metto sotto una siepe vicino all’isba e aspetto di vedere cosa succede. Da breve distanza una vampata nella mia direzione. Sento la pallottola passarmi sopra. Balzo da un lato, sparo in direzione della vampata e faccio un salto. Silenzio. Poi sento parlare: sono italiani. Per fortuna non ho colpito nessuno.

Li chiamo, mi rispondono e vanno via. Non si capisce cosa stia succedendo, sto li fermo e solo. Dall’altra parte della balca scendono persone gridando: – Taliani non sparare. Deutschen Soldaten! Non sparare. Camarad! – Sono tedeschi ch’erano stati presi per partigiani.

Ma può anche darsi che ci siano stati realmente dei partigiani. Rientriamo nelle isbe, dormiamo ancora un’ora e viene l’alba.

Da quell’alba non ricordo piú in che ordine i fatti si siano susseguiti. Ricordo solo i singoli episodi, il viso dei miei compagni, il freddo che faceva. Certe cose chiare e limpide. Altre come un incubo. Cadenzate dalla voce di Bracchi che ci rincuorava: – Forza s’cet! – O che ci dava gli ordini: – Avanti il Vestone! Avanti il gruppo Bergamo! Avanti il Morbegno!

È mattina, la colonna si divide in due. Il Vestone è di punta nella colonna di sinistra. In testa la mia compagnia. C’è un bel sole e non fa freddo. Da una pista vediamo venire verso di noi degli automezzi, a una certa distanza si fermano. Gli ufficiali guardano con i binocoli: sono russi. Arrivano subito dei cannoni anticarro tedeschi, in fretta li mettono in posizione e sparano qualche colpo. Gli automezzi spariscono nella steppa come sono venuti. Poco dopo, forse mezz’ora, nell’affiorare all’estremità di una mugila, siamo accolti da una nutrita sparatoria di armi automatiche. Stando laggiú in quel paese i russi vedranno spuntare solo le nostre teste e sparano. Le pallottole passano alte. Ritorniamo indietro di qualche decina di metri e aspettiamo. Arrivano le altre compagnie del Valchiese e l’automezzo cingolato tedesco con su gli ufficiali superiori. Ora bisognerà conquistare questo paese per poter passare.

Risaliamo la mugila e scendiamo per l’altro versante verso il paese. Alla nostra destra il Valchiese. Alla sinistra le altre compagnie del Vestone.

I russi riprendono a sparare. Tourn, che cammina qualche passo dietro a me, viene ferito a una mano. Mi grida: – Sono ferito! – E agitando la mano che cola sangue sulla neve, ritorna indietro. Grido di sparpagliarci.

Sparano forte i russi. Ci stendiamo sulla neve cosí allo scoperto e poi riprendiamo a scendere. Dietro a un pagliaio, un po’ piú a destra di noi, si è fermato il capitano con gli esploratori. Li raggiungo con quelli che mi seguono. Sparano tremendamente forte in direzione del pagliaio e quando riusciamo a raggiungerlo tiriamo un sospiro di sollievo. Riparati là dietro proviamo il funzionamento della pesante. Smontiamo, puliamo, facciamo azionare energicamente la massa battente col carrello di armamento e controlliamo la valvola di recupero gas. Le pallottole continuano a passare ai lati del pagliaio e un portaordini, Ramazzini, che viene mandato da Moscioni con un biglietto del capitano, si accascia gemendo su se stesso appena è allo scoperto. Due suoi compagni di squadra e compaesani escono a prenderlo. Lo riportano al sicuro sempre fra le pallottole che sibilano. È stato colpito all’addome e ora geme sulla neve vicino a noi.

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