Mario Stern - Il sergente nella neve

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Il sergente nella neve: краткое содержание, описание и аннотация

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Camminiamo nella neve alta, si avanza a fatica. Portando le armi si sprofonda ed è una pena tirar su la gamba dalla neve e mandarla avanti per fare il passo. Siamo tutti stanchi e mi diventa sempre piú difficile far dare il cambio ai portatori. Il tenente X... vuole imporsi, ha sempre la pistola in mano, ma mi accorgo che non l’ascoltano e non hanno fiducia in lui: grida troppo.

Anch’io porto il treppiede per il mio tratto. C’è tanto sole, ora, e si suda. Siamo allo scoperto, e cosí sulla neve si è proprio un bel bersaglio. Cammino con l’animo sospeso pensando: «Se sparassero con i mortai? Per le loro armi automatiche siamo ancora troppo lontani». Mi accorgo che non tutti gli uomini del plotone mi seguono, anche i miei amici se ne accorgono e mi chiedono: –

Perché non vengono con noi? – Stiamo uniti, animo, ce la faremo, – dico, – siamo del peso noi –. Antonelli inveisce sempre piú, sprofondando sotto il peso dell’arma.

È in gamba veramente; bestemmia e impreca ma va sempre avanti e l’arma della sua squadra se la porta quasi sempre lui. Il tenente, che non vuole sentire bestemmiare, rimprovera Antonelli. Antonelli bestemmia piú forte e lo manda al diavolo. Come ho vivo questo ricordo!

Gli altri plotoni continuano a camminare in ordine sparso alla nostra destra; noi dobbiamo proteggere la sinistra della compagnia, i russi potrebbero capitare da qui. Il capitano è in testa a tutti e ci grida di camminare piú in fretta. Sento le voci di Pendoli, di Cenci, di Moscioni che incitano i loro plotoni. D’un tratto, sotto la crosta di terra che mi copre il viso, sento d’impallidire; ho sentito alcuni colpi di partenza. Ecco il sibilo: mortai. Le bombe passano sopra di noi e vanno a scoppiare cinquanta metri piú giú dove non c’è nessuno. – Avanti, presto, avanti, – dico. Ma come si fa? – Avanti, laggiú c’è una balca dove ci si può defilare. Avanti presto –.

Tutti vogliono stringersi intorno a me. – Sparpagliatevi,

– grido. – A sinistra –. Ecco un rombo lungo, ossessionante; lo conosco bene ma non sembra cosí furioso come allora. Alzo la testa e come vedo che le scie delle bombe a razzo vanno in direzione dei russi mi rallegro.

– Sono per loro! – grido, – sono i tedeschi che sparano

–. Dove cadono i colpi vediamo delle isbe che si incendiano e subito i mortai russi cessano di sparare su noi.

Alle prime case del villaggio si ode una nutrita sparatoria; lí c’è il Valchiese, noi siamo piú avanti di loro e dobbiamo fare un lungo giro. Il tenente, intanto, continua a gridare impugnando la pistola. Vede russi dappertutto, scambia per russi anche i plotoni della nostra compagnia e vuole piazzare le armi ogni cento metri puntandole in direzioni fantastiche. Era pazzo, credo, o sulla via di diventarlo.

Nel frattempo, a causa della confusione creata dal tenente, e del tempo che si perdeva a cambiare i portatori, i rimanenti plotoni della nostra compagnia ci avevano distaccati di un bel po’. Il capitano ci urlava da lontano:

– Fate presto –. E se la prendeva con me. Ed era giusto che bisognava fare presto, perché in caso di attacco noi si restava tagliati fuori né potevamo appoggiare i fucilieri con le pesanti. Accelero. Sudiamo e imprechiamo ma giungiamo in una balca ove si può tirare il fiato. Risaliamo; ora siamo vicini al paese e si sta per completare la manovra. Vedo una massa scura sulla neve e mi avvicino. è un alpino dell’Edolo, ha la nappina verde. Sembra placidamente addormentato, all’ultimo momento avrà visto i pascoli verdi della Val Camonica e sentiti i campanacci delle vacche.

Nel paese, tra isba e isba, passano delle slitte veloci e sento esplosioni di bombe a mano. – Guardate, – grido,

– scappano –. Ancora un poco, avanti. Il giro è compiuto, siamo arrivati alle ultime isbe del paese. Bisogna stare attenti perché sparano anche da pochi metri. Ma invece no; per non restare accerchiati, allíultimo momento se ne sono andati e hanno fatto pochissima resistenza. Sopra il paese grava una nube di fumo nero e puzzolente, delle isbe bruciano, vicino a queste vi sono dei cadaveri: donne, bambini, uomini. Si sentono lamenti e pianti. Un senso di raccapriccio mi invade e cerco di guardare altrove. Ma lí è come una calamita e il mio sguardo vi ritorna.

Ci fermiamo a bere vicino ad un pozzo e caliamo giú le gavette con il lungo palo a bilanciere. Qui sostiamo un poí.

Il colonnello Signorini ci passa accanto, sul volto onesto ha un sorriso di soddisfazione; la manovra è riuscita come in piazza d’armi e ci dice: – Bravi ragazzi –. Simultaneamente tutti sono presi da un sollievo, da un’allegria grande. È finita ora! Ancora pochi chilometri e saremo fuori dalla sacca. Davanti a noi si apre una strada larga e battuta. Il tenente del mio plotone dice: – Avete visto cosa ci voleva? Siamo in Italia ormai. Ve l’avevo detto di venire con me.

Ci raggiungono anche gli uomini del mio plotone che si erano allontanati al principio dell’azione. Li rimprovero; Antonelli non li guarda nemmeno. A ogni modo li carico ora delle armi. Il maggiore Bracchi è giulivo e fiero, si dà attorno per riorganizzare le compagnie del suo Vestone: – Sotto s’cet, forza s’cet! A Pasqua saremo a casa per mangiare il capretto.

Intanto la testa della colonna ci raggiunge, la fine si perde nella steppa. Veniamo a sapere che dove eravamo stamattina sono arrivati i carri russi. – Hanno fatto strage, – ci dicono. La divisione ungherese è rimasta quasi tutta prigioniera assieme a quelli che non avevano abbastanza coraggio o forza per venire con noi. Ma ora tutti corrono avanti creando confusione. In testa, però, ci vuole della gente armata e si sente gridare: – Avanti la Tridentina –. Bracchi grida: – Vestú! Avanti.

Il sole è basso, le nostre ombre si allungano sulla neve. Attorno vi è una distesa immensa, senza case, senza alberi, senza il segno di un uomo, solo noi e la colonna dietro di noi che si sperde in lontananza dove il cielo si unisce alla steppa.

Camminiamo. Guardando in giro mi accorgo che sulla nostra via, un poco fuori mano, vi sono dei cavalli sbandati. Riesco a prenderli. Sul piú forte proviamo a caricare le due Breda e le munizioni. Ma il capitano non vuole. Dice che le armi bisogna averle sempre pronte. E cosí ci tiriamo dietro i cavalli e le armi in spalla. Dopo un po’ un cavallo se lo prende il capitano e vi monta sopra. È molto stanco e ha la febbre. Un cavallo se lo prende Cenci per il suo plotone. Su quello che mi resta carico gli zaini dei portatori.

Ora non c’è piú il sole e si cammina ancora. Muti, con le teste basse, camminiamo barcolloni, cercando di mettere i piedi sulle peste del compagno che sta davanti.

Perché camminiamo cosí? Per cadere sulla neve un po’ piú avanti e non alzarci piú.

Alt. Il compagno davanti si è fermato e tutti ci fermiamo. Ci buttiamo sulla neve. Ufficiali superiori italiani e tedeschi su un automezzo cingolato, vicino a noi, consultano carte e bussole. Le ore passano, viene la notte e non ci si muove ancora. Forse aspettano una comunicazione radio. Stando fermi si sente il freddo piú che sempre, e tutto attorno è buio: la steppa e il cielo. Erbe secche e dure escono dalla neve. Fanno nel vento uno strano rumore ch’è il solo che si senta. Nessuno di noi parla. Sediamo sulla neve con la coperta sulle spalle uno vicino all’altro. Siamo ghiaccio dentro e fuori, eppure siamo ancora vivi. Levo dallo zaino la scatoletta di carne di riserva. L’apro, ma mi sembra di masticare ghiaccio, non ha nessun gusto e non vuole andarmi giú; riesco a mangiarne metà e il resto lo ripongo nello zaino. Mi alzo, batto i piedi, mi avvicino al tenente Moscioni. Viene anche Cenci e assieme fumiamo una sigaretta. Non ci diciamo che poche parole, sembra che ci si siano gelate anche le corde vocali. Ma restare in piedi cosí, fumando, ci dà un po’ di conforto. Non pensiamo a nulla, fumiamo e tutto è silenzio. Non si sente nemmeno Antonelli bestemmiare.

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