Mario Stern - Il sergente nella neve

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Il sergente nella neve: краткое содержание, описание и аннотация

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Mi chiama e mi manda a cercare il capitano e una compagnia che manca. – Fai presto, – mi dice Bracchi, – dobbiamo andare all’assalto e cercare di aprire la sacca –. Torno a rifare la strada. E lo trovo il capitano. Sta su una slitta; mi chiama mentre sono ancora lontano. – Rigoni, paesano, – dice, – ho la febbre. Volevo fermarmi in un’isba; no, non sto bene. Dov’è la compagnia? – Capitano, – dico, – la compagnia è laggiú, – e indico con la mano. – Vi aspetta, mi ha mandato in cerca di voi il maggiore.

Sono con il capitano, l’attendente e il conducente della slitta. Il suo aspetto non è piú quello di una volta, gioviale e furbesco; ma con la coperta tirata sulla testa come uno scialle e il passamontagna infilato sino al collo, non sembra piú il contrabbandiere di Valstagna.

– Portatemi dov’è la compagnia, – dice il capitano, – non lasciatemi solo. Sono il vostro capitano, no? Non vorrete mica lasciarmi solo, sono il vostro capitano! Ho la febbre, – ripete. – Andiamo, – rispondo.

Trovo un tenente della compagnia che manca, con il suo plotone. – La compagnia sta venendo, – mi dice. Ma intanto abbiamo fatto tardi e al nostro posto sono andati il Verona e un battaglione del 5¡. Si sente già sparare.

Sparano forte. Si odono le raffiche secche dei mitra russi, le nostre pesanti, i colpi acuti dei fucili, qualche scoppio di mortaio e anche di bombe a mano. Dev’essere dura lassú. Sento brividi per la carne, mi pare sentire le pallottole cucire la mia anima, ogni tanto trattengo il respiro. Mi viene una grande malinconia e un gran desiderio di piangere. Lassú dove sparano: una fila di isbe sul dorso di una mugila. E bisogna passare, dicono, perché al di là c’è una strada da dove ci possono venire incontro le motorizzate tedesche.

Ma i russi non vogliono lasciarci passare. Sparano, sparano, sparano e io ho paura e se fossi con loro no. Mi pare che qualcosa si stacchi da me a ogni raffica, a ogni esplosione. Noi siamo qui pronti ad intervenire e vorrei finirla di stare ad aspettare in questa balca fredda a ridosso del villaggio e con questa angoscia. Passeranno o è davvero finita? I miei compagni sono stanchi, ogni tanto un uomo del mio plotone se ne va, gira per il villaggio tra le slitte degli ungheresi. Questi sono i piú passivi e i piú neutri di tutti. Hanno le slitte stracariche di lardo, salumi, zucchero, tavolette di vitamine, ma niente armi e munizioni. Gli alpini girano attorno alle slitte, sornioni, con le mani in tasca e l’aria da fessi. Quando ritornano tra noi tirano fuori pezzi di lardo e salami di sotto i pastrani. Abbiamo acceso un gran fuoco, ci stiamo attorno a cerchio e ogni tanto ci voltiamo per scaldarci da tutte e due le parti. Si chiacchiera e il vino è l’argomento principale. – Quando sarò a casa voglio fare un bagno in una botte di vino, – dice Antonelli. – E io mangiare tre gavette di pastasciutta, – aggiunge Bodei (si è dimenticato oramai che a casa si mangia nel piatto), – e fumare un sigaro lungo come un alpenstock –. Serio e convinto, guardando il fuoco, Meschini dice: – Fare una sbornia di grappa e liquefare con il fiato tutta la neve della Russia –.

Ma ogni tanto si sta zitti e lassú continuano a sparare. –

Sparano, – dice Antonelli, e bestemmia. – Tourn! – grida, battendogli una mano sulla spalla: – e bute e meze bute, Barbera e Grignolin! – E Tourn alza la testa, gli occhietti da scoiattolo sotto il passamontagna si accendono: – Basta ch’el sia da beive, – dice. Ma qui porca naia non c’è niente. Un fuoco che ti affumica davanti e neve che ti agghiaccia dietro. I tenenti Cenci e Pendoli chiamano adunata vicino alle slitte della compagnia: c’è qualcosa da distribuire. Sono gli ultimi viveri che ci vengono dati come razione e che i cucinieri sono riusciti a portare sin qua. Io ero convinto che non ci fosse piú nulla. I sacchi delle pagnotte sono incrostati di neve e odorano di cipolla, di carne, di conserva, di fumo di caffè; dell’odore dei cucinieri insomma. Ci sono due pagnotte per ciascuno, dure, gelate, e vecchie; e dalle slitte esce anche una forma di reggiano e anche quello è gelato. Per spaccarlo il tenente Cenci deve prendere un’accetta e poi l’aiuto io con la baionetta a fare le razioni per i plotoni. C’è anche cognac. Quando il cuciniere tira fuori i bidoni ne sentiamo l’odore e annusiamo l’aria come i cani da caccia e quelli che sono lontani si fanno sotto. Capisquadra fuori le gavette! Quante volte ho fatto le razioni in quattro anni di naia: una gavetta sino ai chiodi del manico otto razioni di vino, un gavettino di cognac una squadra. Ma di cognac ora ce n’è di piú e le parti le fa Cenci. Ritiro con i capisquadra la roba per il mio plotone. Attorno al fuoco beviamo il cognac; attorno al fuoco.

Antonelli bestemmia, Tourn si liscia i baffi, Meschini mugola. Cenci viene da noi. – In gamba, pesante, – dice e ci dà da fumare. Naia potente!

So che vicino a noi del Vestone ci dovrebbe essere il battaglione del genio alpino della nostra divisione ove ho i paesani e vado in cerca di loro. Trovo il Vecio e Renzo. Vengono dalla battaglia dove erano di collegamento presso il colonnello Signorini. Appena li vedo camminare stanchi sulla neve mi ritorna alla memoria che in settembre erano venuti a trovarmi in linea e tanto bene era nascosta la mia tana nel campo di grano che quasi ci cascavano dentro con la motocicletta che montavano. Strano il rumore della motocicletta nel campo di grano. Solo quello si sentiva e io, sdraiato nella tana, pensavo: «Chi sarà?» Ed erano loro, i miei paesani che mi portavano un sacchetto di frumento per fare il pane.

Quel giorno avevo un bidoncino di vino: un mese di razioni arretrate. Mi sembrava di vedere il mio paese nell’incontrarli. – Ciao Renzo, ciao Vecio. – Mario! –

Mario! – Vengono dal combattimento e sono stanchi. –

Questa volta non arriveremo a casa, Mario; ci lasceremo la pelle. I russi non ci lasciano passare, – dice il Vecio.

Ed è triste. Chissà quanti ne avrà visti morire; chissà cosa sarà passato per la sua radio. Renzo, invece, è sempre uguale. Se avesse un fiasco di vino o sentisse una quaglia cantare nell’avena, alla sacca non ci penserebbe piú. Ma forse non ci pensa nemmeno adesso. – Su, coraggio paesani, – dico, – vedrete che festa faremo quando saremo ritornati, che pastasciutte e che sbornie! Ci sarà anche lo Scelli con l’armonica e le ragazze e grappa –. Ma il Vecio sorride sfinito e gli occhi gli luccicano. Chiedo a loro di Rino. Non sanno dirmi dove sia e cosí vado a cercarlo.

Trovo il tenente medico del suo battaglione e mi dice d’averlo visto un attimo prima. Mi rallegro: almeno è vivo. Chiedo di lui ai suoi compagni: Era qui adesso, – mi dicono. Lo chiamo ma non riesco a trovarlo. Incontro Adriano e Zanardini: – Coraggio, – dico, – ce la faremo

–. Ritorno dov’è il mio plotone. Mi metto dietro un’isba e accendo il fuoco. Non so come, mi trovo assieme a Marco Dalle Nogare. Marco che non si risparmia mai con nessuno, amico di tutti. Con lui mi sento meglio anch’io. Nella tasca del pastrano, ho trovato un pacchetto di verdura essiccata; facciamo sciogliere la neve nella gavetta e la mettiamo a bollire. Mangiamo assieme. – Che naia, Marco! – Ma siamo abbastanza allegri noi due; e parliamo di quando in Albania abbiamo vuotato una bottiglia di doppio Kummel. Dopo mangiato Marco ritorna con i portaordini del comando di reggimento.

Come passano lente le ore; il freddo aumenta con l’avvicinarsi della sera. Lassú non si è deciso ancora niente e gli spari si fanno sempre piú radi, anche le raffiche sembrano stanche. Il cielo è tutto verdeceleste, immobile come il ghiaccio, gli alpini parlano poco e sottovoce fra di loro. Giuanin mi si avvicina, mi guarda da sotto la coperta che si è tirato sulla testa, non dice niente e torna via. Vorrei chiamarlo e gridargli: «Perché non mi chiedi se arriveremo a baita? Èfreddo e si fa sera, la neve e il cielo sono uguali. A quest’ora nel mio paese le vacche escono dalle stalle e vanno a bere nel buco fatto nel ghiaccio delle pozze. Dalle stalle escono il vapore e l’odore di letame e latte; i dorsi delle vacche fumano e i camini fumano. Il sole fa tutto rosso: la neve, le nubi, le montagne e i volti dei bambini che giocano con le slitte sui mucchi di neve: mi vedo anch’io tra quei bambini. Ele case sono calde e le vecchie vicino alle stufe aggiustano le calze dei ragazzi. Ma anche laggiú in quell’estremo lembo della steppa c’era un angolo di caldo. La neve era intatta, l’orizzonte viola, e gli alberi si alzavano verso il cielo: betulle bianche e tenere e sotto queste un gruppetto di isbe. Pareva che non ci fosse la guerra laggiú; erano fuori del tempo e fuori del mondo, tutto era come mille anni fa e come forse tra mille anni ancora. Lí aggiustavano gli aratri e le cinghie dei cavalli; i vecchi fumavano, le donne filavano la canapa. Non ci poteva essere la guerra sotto quel cielo viola e quelle betulle bianche, in quelle isbe lontane nella steppa. Pensavo:

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