Mario Stern - Il sergente nella neve
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- Название:Il sergente nella neve
- Автор:
- Издательство:Einaudi
- Жанр:
- Год:2001
- Город:Torino
- ISBN:9788806160319,8806160311
- Рейтинг книги:4 / 5. Голосов: 2
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Mi rivolgo, poi, ai tre imboscati: – Non venite? – Ma dove vuoi andare? – mi risponde uno: – Siamo circondati dai russi e qui siamo al caldo. – Lo vedo, – dico; – io vado. Vi saluto e auguri –. E ritorno fuori.
Il paese era tutto un brulicare, come quando nel bosco si introduce un bastone in un formicaio. Ragazzi, donne, bambini, vecchi entravano nelle isbe con fagotti e sacchi mezzi pieni e subito ritornavano fuori con i sacchi vuoti sotto il braccio. Andavano nei magazzini che bruciavano e prendevano tutto quello che riuscivano a salvare dalle fiamme. Slitte, muli, camion, automobili andavano e venivano senza scopo per le strade; un gruppo di carri armati tedeschi fece presto ad aprirsi un passaggio tra quel groviglio. Un fumo giallo e acre si fermava sopra il villaggio e fasciava le case. Il cielo era grigio, le isbe grige, la neve calpestata in tutti i sensi era grigia.
Avevo ancora in bocca il sapore del latte, ma ormai ero fuori. Ora camminavo verso casa. Sia quel che sia.
Le mani in tasca, guardavo quello che succedeva intorno a me; mi sentivo solo. Passando davanti a un edificio, forse le scuole, vidi pendere verso la strada due bandiere; una italiana e l’altra della Croce Rossa e quest’ultima era cosí grande che quasi toccava terra. Divenni improvvisamente triste. Immaginavo il paese vuoto con i magazzini che finivano di bruciare, gli abitanti chiusi nelle isbe, qualche mulo abbandonato che rosicchiava i torsi dei cavoli che spuntavano dalla neve. Immaginavo i soldati russi che arrivavano. I muli, allo sferragliare dei carri armati, muovevano appena le orecchie.
I nostri feriti guardavano dalle finestre dell’ospedale.
Tutto era grigio e le due bandiere pendevano verso la strada deserta.
Dall’ospedale ora stavano uscendo i feriti che potevano camminare e tentavano di aggrapparsi alle slitte e ai camion di passaggio.
Non riuscivo a vedere un soldato della mia compagnia o del battaglione. Forse erano già partiti tutti. Vidi uno del Cervino che camminava cosí come camminavo io. Lo chiamai e andammo assieme. Chiesi notizie di conoscenti. Il Cervino era il battaglione con il quale avevo partecipato a un’azione dell’inverno precedente. – E il sergente Chienale? – chiesi. – È morto. – E il tenente Sacchi? – Morto –. Tanti e tanti altri erano morti. Pochi, appena dieci, forse, erano rimasti di quel Cervino che era piú spavaldo di un battaglione di bersaglieri.
Attraversai il paese passando accanto ai magazzini che stavano bruciando. Piú tardi seppi che alpini arrivati qui dalla linea erano entrati nei magazzini abbandonati; e i soldati della sussistenza avevano detto: – Prendete quel che volete –. Trovarono cioccolata, cognac, vino, marmellata, formaggio. Sparavano nelle botti di cognac e mettevano sotto la gavetta. Dopo tanto tribolare, finalmente, bevevano e mangiavano e dormivano. Molti non si svegliarono piú: bruciati o assiderati. Altri svegliandosi si saranno trovati davanti al viso le canne dei mitra russi.
Ma qualcuno è riuscito a raggiungerci e a raccontare.
Poco prima di uscire dal paese, tra tutta quella confusione, riuscii a vedere degli uomini della mia compagnia.
Li raggiunsi. Al passaggio d’una balca, prima di entrare nella steppa libera, v’era tutto un ammasso di camion, di slitte, di auto. Camion erano rovesciati nel fondo della balca e là chi bestemmiava, chi gridava, chi chiamava aiuto per spingere o cercare di liberare la pista. Provai piacere quando vidi i camion rovesciati che non si potevano muovere e ricordai come, nell’estate precedente, durante le interminabili marce notturne di avvicinamento, ci sorpassavano le lunghe autocolonne e la polvere color cioccolata delle piste si appiccicava al sudore di noi che si camminava sotto lo zaino, penetrava nella gola e ci faceva sputar giallo per delle settimane.
E quelli della sussistenza, dei magazzini e del genio di retrovia ai lati della pista ci guardavano passare e ridevano. Sí! porca naia, ridevano. «Ma questa volta si muoveranno anche loro. Diavolo se si muoveranno. Se vogliono arrivare a baita si muoveranno!» Questo pensavo mentre li guardavo affaccendarsi attorno alle loro macchine che portavano le scartoffie o i bagagli dei loro ufficiali o chissà che diavolo. Alle spalle si levavano le fiamme e il fumo degli incendi e si udiva sempre piú vicino il rumore delle cannonate. «Disincantatevi, imboscati, è giunta l’ora anche per voi di lasciare le ragazze delle isbe, le macchine da scrivere e tutti gli altri accidenti che il diavolo se li pigli. Imparerete a sparare con il fucile, venite con noi se volete; per noi, ne abbiamo abbastanza».
Pensavo a questo, e questo pensiero mi metteva energia e calpestavo con forza la neve fuori dalla pista. Camminavo piú spedito e andavo avanti. Risalimmo la balca.
Attraverso la steppa si snodava la colonna che poi spariva dietro una collina, lontano. Era una striscia come una S nera sulla neve bianca. Mi sembrava impossibile che ci fossero tanti uomini in Russia, una colonna cosí lunga.
Quanti caposaldi come il nostro eravamo? Una colonna lunga che per tanti giorni doveva restarmi negli occhi e sempre nella memoria.
Ma si avanzava lentamente, troppo lentamente, e cosí, con il gruppo che mi seguiva, ritornai fuori dalla pista per cercar di portarmi piú avanti. Avevamo due Breda con qualche migliaio di colpi e ancora i viveri di riserva.
Il peso ci faceva sprofondare nella neve ma pure si andava molto piú lesti della colonna. Gli spallacci dello zaino ci segavano le ascelle. Antonelli, come sempre, bestemmiava e Tourn ogni tanto mi guardava come a dirmi:
«La finirà, no?» C’era con noi qualcuno della squadra di Moreschi che cercava di rimanere qualche passo indietro per evitare il turno di portare l’arma. Antonelli inveiva contro costoro con le piú belle parole dei bassifondi veronesi. Si incontrava ogni tanto qualche uomo supino nella neve che, trasognato, ci guardava passare senza farci alcun cenno. Un ufficiale italiano con stivali e speroni, a un lato della pista, gesticolava e gridava insulsamente. Era ubriaco e ciondolava. Cadeva nella neve, si rialzava gridando chissà che cosa e poi ritornava giú.
Stava assieme a un carabiniere che cercava di sostenerlo e di tirarlo avanti. Infine si fermarono dietro a un pagliaio isolato nella steppa. Piú avanti incontrai altri soldati della mia compagnia, poi quattro uomini del mio plotone tra i quali Turrini e Bosio. Si erano arrangiata una piccola slitta e vi avevano caricato sopra la pesante e tre casse spalleggiabili di munizioni. Un po’ qua e un po’ là, lungo la colonna, ero riuscito a radunare quasi tutto il mio plotone. Ogni qualvolta un gruppetto si univa al mio già grosso era un piacere; ci si chiamava per nome e si rideva scherzando sulle nostre condizioni. Quelli che camminavano nella colonna alzavano gli occhi dalla neve, ci davano uno sguardo e ritornavano ad abbassare la testa. – Stiamo uniti, – dicevo, – e camminiamo in fretta.
Venne la notte e arrivammo in un piccolo paese nella steppa. Non so che giorno o che notte fosse, so che faceva molto freddo, e avevamo anche fame. Ci trovammo riuniti con gli altri plotoni della compagnia e con il battaglione. Ormai eravamo nel nostro ambiente: si sentiva parlar bresciano. Anche il maggiore Bracchi parlava bresciano: – Corai s’cet, forza s’cet –. Il maggiore Bracchi: cappello in testa, scarpe Vibram, sigaretta in bocca, gradi di banda sulle maniche del pastrano, il passo sicuro, occhi azzurri e voce che infondevano serenità. – Coraggio, ragazzi, diceva in bresciano, – per Pasqua saremo a casa a mangiare il capretto –. Chiamava per nome or l’uno or l’altro di noi e sorrideva.
– Barba di Becco, – disse (cosí mi chiamava lui, Barba di Becco o Vecio), – mi sembri diventato un po’ magro e trasandato. Una pastasciutta ci vorrebbe o un liter de negher. – Naia potente se ci vorrebbe! – dissi, – anche due. E lei non ci starebbe? – Sciur magiur, – gli disse Bodei, – deve restare consegnato, le manca un bottone sul pastrano e ha la penna storta. – Enculet ciavad, – gli rispose il maggiore. Il maggiore sorrideva e scherzava quando parlava con noi, ma poi diventava serio e gli occhi si spegnevano. E io pensavo: «Pasqua è ancora lontana, abbiamo appena passato Natale; e tanti chilometri ci sono da camminare».
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