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Mario Stern: Il sergente nella neve

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Mario Stern Il sergente nella neve

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Sarà sempre cosí? Chiudevo gli occhi ma camminavo. Un passo. Ancora un passo. Il capitano in testa alla compagnia perse il collegamento con gli altri reparti. Eravamo fuori dalla strada giusta. Ogni tanto accendeva la pila sotto la coperta e consultava la bussola. Qualche alpino si staccava lentamente dalla squadra, si sedeva sulla neve e alleggeriva lo zaino. Non potevo dire nulla, tranne che: – Nascondetele sotto la neve, tenetevi le bombe a mano –. Antonelli portava l’arma della pesante, non bestemmiava piú, non perché non volesse ma perché non poteva. Nel buio posai casualmente i piedi su cose oscure e solide: cassette portabombe per mortaio da 45. Erano della squadra di Moreschi, lo cercai e gli dissi: – Con la tua squadra devi aiutare le altre del plotone a portare le pesanti e le munizioni per le pesanti. Abbandona anche i mortai, – aggiunsi piú piano, – e le altre casse; cerca di fare in modo che non s’accorga il capitano –. In testa si fermarono, ci fermammo tutti.

Nessuno parlava, sembravamo una colonna di ombre.

Mi buttai sulla neve con la coperta sulla testa; aprii lo zaino e seppellii nella neve due pacchi di cartucce per mitragliatore. Si riprese a camminare, dopo un po’ mi feci dare da Antonelli la pesante e passai a lui le due canne di ricambio che avevo portato fino allora. Antonelli aprí la bocca, sospirò forte e bestemmiò tutto quello che poteva bestemmiare. Sembrava, tanto era divenuto leggero, che il vento lo dovesse portar via. E a me di sprofondare. – Sotto, – dissi, – dobbiamo restare uniti –.

Dove abbiamo camminato quella notte? Su una cometa o sull’oceano? Niente finiva piú.

Abbandonato sulla neve, a ridosso d’una scarpata al lato della pista, stava un portaordini del comando di compagnia. Si era lasciato andare sulla neve e ci guardava passare. Non ci disse nulla. Era desolato, e noi come lui. Molto tempo dopo, in Italia (e c’era il sole, il lago, alberi verdi, vino, ragazze che passeggiavano), venne il padre di questo alpino a chiedere notizie di suo figlio a noi pochi che eravamo rimasti. Nessuno sapeva dire niente o non voleva dire niente. Ci guardava duramente:

– Ditemi qualche cosa, anche se è morto, tutto quello che potete ricordarvi, qualsiasi cosa –. Parlava a scatti, gesticolando, e per essere il padre di un alpino era vestito bene. – È dura la verità, – dissi io allora, – ma giacchè lo volete vi dirò quello che so.

Mi ascoltò senza parlare, senza chiedermi nulla. – Ecco, – finii, – è cosí –. Mi prese sotto il braccio e mi portò in un’osteria. – Un litro e due bicchieri. Un altro litro.

Guardò il ritratto di Mussolini appeso alla parete e strinse i denti e i pugni. Non parlò e non pianse... Poi mi tese la mano e ritornò al suo paese.

Non finiva mai quella notte. Dovevamo arrivare in un paese delle retrovie dove c’erano magazzini e comandi.

Ma noi non sapevamo nessun nome di paese delle retrovie. I telefonisti, gli scritturali e gli altri imboscati sapevano tutti i nomi. Noi non sapevamo nemmeno il nome del paese dove era il nostro caposaldo; ed è per questo che qui trovate soltanto nomi di alpini e di cose. Sapevamo solo che il fiume davanti al nostro caposaldo era il Don e che per arrivare a casa c’erano tanti e tanti chilometri e potevano essere mille o diecimila. E, quando era sereno, dove l’est e dove l’ovest. Di piú niente.

Dovevamo arrivare in uno di questi paesi dove, ci dicevano gli ufficiali, avremmo potuto riposare e mangiare. Ma dove era? In un altro mondo? Finalmente lontano, si vide una luce tenue; s’ingrandiva sempre piú fino a diventare rossigna ed illuminare il cielo. Ma questa luce rossa era nel cielo o sulla terra? Poi avvicinandosi si poté distinguere che era un villaggio che bruciava. Ma la tormenta non smetteva e c’erano sempre i coltelli piantati sotto le ascelle e si era schiacciati dal peso dello zaino e delle armi. E altre luci rosse si videro in quel buio.

La neve pungeva gli occhi ma si camminava. Arrivammo in un paese, intravvedemmo le isbe scure nella tormenta e sentimmo abbaiare i cani; si sentiva che sotto la neve c’era una strada. Ma non potevamo fermarci, bisognava camminare ancora. Altra gente camminava lí attorno.

Forse russi. Ma è meglio morire. Uno mi si avvicina, mi tira per la coperta, mi guarda fisso: – Che reparto siete?

– mi chiede. – 55 del Vestone, 6¡ Alpini, – rispondo –

Conosci il sergente maggiore Rigoni Mario? – dice l’ombra. – Sí, – rispondo. – È vivo? – chiede – Sí, – dico, – è vivo. Ma chi sei? – Sono un suo cugino, – dice. – Ma dov’è? – Sono io Rigoni, – dico, – ma tu chi sei? –

Adriano –. E mi prende per le spalle e mi chiama per nome e mi scuote. – Come va parente? – dice Adriano.

Ma io non riesco a dirgli niente. Adriano avvicina i suoi occhi al mio viso e ripete: – Come va parente? – Male, – dico, – va male. Ho sonno, ho fame, non ne posso piú.

Ho tutto quello che si può avere di peggio –. Adriano, me lo raccontò poi al paese, si stupí quella notte a sentirmi parlare cosí. – Io, – diceva al paese, – quando lo incontravo lo vedevo sempre sereno e allegro. Ma quella notte. Quella notte!

Adriano levò dallo zaino una scatola di marmellata e un pezzo di parmigiano di un paio di chili. – L’ho presa in un magazzino questa roba, – disse, – mangia –. Con la baionetta cercai di rompere il formaggio per staccarne un pezzo e restituirgli l’altro. Ma dopo essermi levato i guanti sentii un dolore impensabile straziarmi le mani e non fui capace di tagliarlo. Le mani non seguivano il cervello e le guardavo come cose non mie e mi venne da piangere per queste povere mani che non volevano piú essere mie. Mi misi a sbatterle forte una contro l’altra, sulle ginocchia, sulla neve; e non sentivo la carne e non le ossa; erano come pezzi di corteccia d’un albero, come suole di scarpe; finché me le sentii come se tanti aghi le perforassero, e me le sentii a poco a poco tornare mie queste mani che adesso scrivono. Quante cose può ricordarmi il mio corpo.

Riprendemmo a camminare nella notte. – E i paesani, Adriano? – chiesi. – Sono tutti sani, – rispose. – Ma io ora devo ritornare al mio reparto, ci rivedremo ancora. Stai in gamba parente. – Arrivederci, – dico, – in gamba sempre.

Sotto, sotto, dobbiamo restare uniti. Non ho il coraggio di parlare ai miei compagni di case di vino di primavera. A che gioverebbe? A buttarsi sulla neve e dormire e sognare queste cose e poi svanire nel nulla, nel niente, e sperdersi, sciogliersi con la neve a primavera nell’umore della terra. Era tutto buio ed in lontananza, nel cielo, riflessi rossi dei villaggi che bruciavano. Ancora un passo, ancora un altro; la neve passava la coperta e pungeva il viso, il collo, i polsi. Il vento ci toglieva il respiro e voleva strapparci la coperta. Mangiai un po’ del formaggio che mi aveva dato Adriano. Era duro a spezzarsi con i denti, a masticarlo era come sabbia, e sentivo che assieme al boccone mandavo giú sangue che mi usciva dalle gengive e dalle labbra. Il fiato mi si gelava sulla barba e sui baffi e con la neve portata dal vento vi formava dei ghiaccioli. Con la lingua mi tiravo quei ghiaccioli in bocca e succhiavo. E venne líalba. E la tormenta aumentò.

E il freddo aumentò. Ma ora mi domando: se non vi fosse stata la tormenta saremmo sfuggiti ai russi?

In quella notte il tenente Cenci era di retroguardia con il suo plotone. A un certo punto si erano fermati in un’isba isolata per riposare ma se due donne non li avessero svegliati in tempo per riprendere in fretta il cammino sarebbero stati sorpresi dai russi che già erano in vista dell’isba. E l’alba era grigia e il sole non veniva mai e c’era solo la neve e il vento e noi nella neve e nel vento.

Nessuno voleva piú portare le pesanti e le casse di munizioni; e quando uno si prendeva sopra lo zaino una di queste cose non c’era piú nessuno che voleva dargli il cambio. Cercavo di convincerli che bisognava tenerle con noi. Le Breda della mia squadra erano le armi migliori della compagnia e sapevo che cosa significasse per i fucilieri sentire le pesanti in caso di attacco. Bisognava portarcele con noi a costo di qualsiasi sacrificio. Ma quando, in quella mattina, dopo una tale notte, bisognava prendere sopra lo zaino il treppiede o una cassa di munizioni i coltelli sotto le ascelle pareva raggiungessero il cuore e i polmoni rimanevano senz’aria. Alleggerendo un compagno di una di queste cose, pareva che costui si alzasse in volo: sospirava, bestemmiava e poi diceva mentalmente un’avemaria.

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