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Mario Stern: Il sergente nella neve

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Mario Stern Il sergente nella neve

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Sí, potevamo restare morti tutti e due. Ora vai giú alle cucine, non posso farti accompagnare; vai giú solo, c’è bisogno di gente qui. Fa’ presto; dammi le tue cartucce,

– e gli vuotai le giberne. Si allontanò lagnandosi per il camminamento: – Il mio braccio! il mio braccio! – e cercava di correre nel buio.

Allora mi resi conto che una bomba era scoppiata tra noi due sopra le nostre teste. Il fucile dell’alpino era rotto lí a terra. Avevo le mani rosse di sangue e il camiciotto sporco di terra e sangue.

Dopo un poco ritornò il silenzio. Ma non ero tranquillo perché un certo numero di russi erano riusciti ad infiltrarsi tra noi e Cenci. Ed erano pericolosi; potevano aggirarci e penetrare nel caposaldo dalle spalle. Con un mitragliatore e qualche uomo mi portai piú indietro e a sinistra verso Cenci. E provai paura e apprensione quando vidi che, da quella parte, i reticolati avevano dei varchi. Ma invece di venire da noi i russi cercavano di penetrare in profondità e sentimmo che sparavano verso il fosso anticarro all’imboccatura della valletta che portava alle retrovie. Questa volta, pensavo, vanno a svegliare gli imboscati. Ma gli imboscati rimasero tranquilli ancora un altro giorno perché la squadra esploratori della nostra compagnia, al comando del tenente Buogo, andò incontro ai russi.

Erano in gamba gli esploratori, tutti dello stesso paese, Collio Valtrompia, e tutti parenti fra di loro, o per lo meno uno faceva all’amore con la sorella dell’altro. Avevano una parlata tutta particolare e gridavano sempre. A quel modo scesero incontro ai russi. E allora, nella notte fredda, dopo una raffica di mitra russo sentimmo Buogo che chiamava: – Cenci! Cenci! Tenente Cenci! – E Cenci, dal suo caposaldo, gridare: – Buogo! Di’, Buogo! come si chiama la tua fidanzata? – E ripeteva: – Come si chiama la tua fidanzata?

Buogo disse un nome. Mi misi a ridere assieme agli alpini che erano con me. Il nome di una donna, di una fidanzata, il nome italiano di una ragazza gridato cosí nella notte mentre sparavano i mitra russi e i moschetti italiani! – Di’, Buogo, come si chiama la tua fidanzata? Buogo! Buogo! come si chiama? – E gli alpini ridevano.

Diavolo! Chissà che bella ragazza era, e morbida, ed elegante. Altro non poteva essere la fidanzata di un tenente, e cosí pareva anche dal nome. Immaginavo i due tenenti a farsi le confidenze nella tana guardando le fotografie. Ma un nome gridato cosí nella notte! Avevo capito perché Cenci voleva sapere il nome della ragazza.

E tutti quelli che avevano sentito ridevano. Anche i russi di certo dovevano averlo capito. Diavolo! Piantiamo qui tutto, ci sono tante belle ragazze e vino buono, no, Baroni? Loro hanno le Katiusce e le Maruske e la vodka e campi di girasole; e noi le Marie e le Terese, vino e boschi d’abeti. Ridevo, ma gli angoli della bocca mi facevano male e impugnavo il mitragliatore.

Sparavano laggiú tra i cespugli e sentivo chiaramente le voci degli esploratori gridare che il tenente Buogo era stato ferito ad una gamba e che lo portavano via.

Gridavano nel loro gergo: – Sono qui! Venite! Ci sono anche donne –. Parevano una compagnia di cento ed erano forse tredici. Gettavano bombe a mano e poi urlavano: – Li abbiamo presi, vi sono due donne, venite! –

Bestemmiavano e battevano i cespugli fra noi e Cenci.

D’un tratto mi accorsi che incominciava l’alba. Una lepre mi passò davanti correndo e andò a nascondersi tra l’erbe secche della riva. Un portaordini venne ad avvisarmi che il plotone arditi del Morbegno sarebbe venuto in nostro aiuto per eliminare quei russi che ancora erano rimasti fra noi e Cenci. Mi raccontò che i nostri esploratori avevano preso poco prima due donne russe che erano venute all’assalto in pantaloni e mitra. Poco dopo sentii gli arditi del battaglione Morbegno. Che lingere questi contrabbandieri comaschi! Si chiamavano tra loro, facevano chiasso, sparavano, bestemmiavano.

Quasi come i nostri esploratori. – L’è qua! l’è qua! – gridavano e gettavano bombe a mano. Incominciò a venir su il sole dietro il bosco di roveri. Tante mattine l’avevo visto sorgere e allora le nostre tane e le loro fumavano tranquille come i camini di un villaggio tra le alpi o tra la steppa; e tutto era tranquillo e la neve sul fiume intatta, senza macchie di sangue o tracce di uomini.

Sentivo gli occhi che non volevano stare aperti. Da qualche giorno non mi lavavo e avevo una crosta sul viso. Le mani, sporche di sangue e terra, odoravano di fumo e desideravo una mattina come le altre per poter lavarmi il viso e andare a dormire nella tana. Erano due notti e due giorni che non dormivo: e ora non c’erano munizioni, gli alpini erano stanchi, la posta non arrivava, il tenente non c’era. Avevo sonno, fame, e restavano tante cose da fare. Ma avevo sigarette.

Mandai un portaordini dal capitano a dire che avevo bisogno assoluto di munizioni per tutte le armi, e bombe a mano, tante. Feci raccogliere le cartucce inesplose che saltavano via dai mitragliatori quando s’inceppavano per spararle con i fucili.

Gli alpini stanchi, si buttavano sulla paglia delle tane e russavano con il fucile in mano e le bombe nelle tasche; dormendo qualcuno saltava in piedi gridando e subito ripiombava giú a russare. Lasciai fuori solo tre vedette, ma non potevo dormire. Arrivarono le munizioni.

Le portarono a spalla i conducenti e appena messe giú le casse si allontanarono in fretta.

Stavo con una vedetta a guardare i cadaveri dei russi che erano rimasti sul fiume e osservando cosí, nel sole del mattino, mi accorsi di due russi che stavano nascosti poco lontano da noi dietro un rialzo del terreno sulla riva del fiume. Dopo un po’ che li osservavo si mossero; uno sorse in piedi e di corsa tentò di passare di là. Mirai.

Mi pareva di vederlo davanti alla canna del moschetto e tirai. Lo vidi cadere di schianto sulla neve. L’altro suo compagno, che si era alzato in piedi per seguirlo, tornò a nascondersi. Osservavo con un binocolo il russo caduto sul fiume.

Lo vedevo immobile. Ma perché non aveva aspettato la notte per passare di là? Anche la vedetta osservava.

D’un tratto esclamò: – Si muove! – E lo vidi scattare come un babau e correre verso l’altra riva – Me l’ha fatta, – dissi forte, e risi. Ma la vedetta prese il mitragliatore della postazione e mezzo ritto sulla trincea sparò. Vidi il russo cadere nuovamente, ma non come prima. Si contorceva e si trascinò per qualche metro, infine si fermò con un braccio teso verso la sponda ormai vicina. L’altro suo compagno che era rimasto dalla nostra parte ritentò il passaggio ma una raffica di mitragliatore lo costrinse a nascondersi nuovamente. Pensavo: «Aspetterà la notte, ora; gli converrebbe». Avrei voluto gridarglielo.

Vi era un bel sole: tutto era chiaro e trasparente, solo nel cuore degli uomini era buio. Buio come una notte di tempesta su un oceano di pece. Allora sentii un gran boato e tremare la terra sotto i piedi. La neve franava dalla trincea, aratri di fuoco solcavano il cielo sopra di noi e una colonna alta di fumo saliva dall’altra riva e oscurava il sole: vicino alla terra era gialla e piú su nera.

Negli occhi della vedetta vidi il mio terrore, mi agitavo nello spazio di pochi metri dentro la trincea. Ma la mia paura non sapeva dove andare né cosa fare. Mi guardavo attorno e non ero capace di ragionare. La vedetta era il mio specchio. Poi sentii e vidi gli scoppi levarsi dietro il caposaldo di Cenci; tanti, uno vicino all’altro e nel medesimo istante. Questa, riuscii a pensare, è la Katiuscia a settantadue colpi. Diavolo che accidente d’ordigno!

Sparò altre due volte e ogni volta trattenevo il fiato. Finalmente la nostra artiglieria incominciò a rispondere.

Poi ritornò il silenzio.

Aspettavo il nuovo ufficiale che sarebbe venuto a prendere il comando del caposaldo. Avrei voluto dormire un po’, almeno un’ora. Intanto passava il tempo. Potevano essere le nove, mezzogiorno, le due, non sapevo; il quindici o il sedici o il diciassette di gennaio.

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