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Mario Stern: Il sergente nella neve

Здесь есть возможность читать онлайн «Mario Stern: Il sergente nella neve» весь текст электронной книги совершенно бесплатно (целиком полную версию). В некоторых случаях присутствует краткое содержание. Город: Torino, год выпуска: 2001, ISBN: 9788806160319,8806160311, издательство: Einaudi, категория: Старинная литература / на итальянском языке. Описание произведения, (предисловие) а так же отзывы посетителей доступны на портале. Библиотека «Либ Кат» — LibCat.ru создана для любителей полистать хорошую книжку и предлагает широкий выбор жанров:

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Mario Stern Il sergente nella neve

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Dik si chiama. Che bella bestia –. Ecco, allora diventava triste, quando parlava del suo cane.

L’altro caporale della squadra era Gennaro. Chissà di che paese era. Meridionale certamente. Maestro o ragioniere o qualcosa di simile, frequentò un corso ufficiali.

Ma non lo avevano fatto idoneo e cosí faceva il caporale.

Parlava poco, era timido con gli alpini, e questi, se qualche volta lo canzonavano, provavano per lui rispetto ed affetto. Non aveva certamente un cuor di leone ma la sua personalità, senza farsi notare, si comunicava a chiunque gli vivesse vicino. Nel suo gruppo non succedevano mai storie, per la spartizione del rancio o per il turno di vedetta o per quello di lavoro. Il suo mitragliatore funzionava sempre. Quando c’erano allarmi o pattuglie russe che molestavano, era tra i primi che uscivano dalla tana per correre nel posto minacciato. Eppure, ne sono certo, dentro di sé tremava come una foglia di betulla.

Venne infine una mattina che i russi, prima dell’alba, incominciarono a sparare con i mortai e l’artiglieria sul caposaldo di Sarpi, poi spararono a Cenci, allungarono il tiro verso le cucine e poi su al comando di compagnia dietro il nostro caposaldo. Pensavo che addosso a noi non potevano sparare perché eravamo troppo vicini a loro. Gli alpini, nella tana, si guardavano muti, seduti attorno alle stufe, l’elmetto calcato sulle orecchie, il fucile tra le ginocchia, le tasche e la cacciatora piene di bombe a mano sotto il camice bianco. Tentavo di scherzare ma il sorriso si spegneva presto tra le barbe lunghe e sporche. Nessuno pensava: «se muoio»; ma tutti sentivano un’angoscia che opprimeva e tutti pensavamo: «quanti chilometri ci saranno per arrivare a casa?»

Le nostre artiglierie incominciarono a rispondere al fuoco dei russi e non ci sentivamo piú soli. I proiettili passavano sopra le nostre teste e pareva che alzando una mano si potessero toccare. Andavano a scoppiare sul fiume davanti a noi, sulle postazioni dei russi e nel bosco di roveri. Nei nostri ricoveri filtrava giú la sabbia fra i pali e dall’orlo delle trincee franava la neve. Un paio di colpi arrivarono corti sui nostri reticolati e vicino alle nostre tane. Lasciai fuori soltanto due vedette nelle postazioni coperte e il tenente mandò ad avvisare di allungare il tiro. Appena giorno l’artiglieria smise di sparare e i primi scaglioni di russi incominciarono a passare il fiume. Mi aspettavo un attacco davanti a noi, invece forzarono a sinistra, piú in giú del caposaldo di Cenci. Forse, penetrati di là, avrebbero voluto entrare nella valletta che ci divideva, e inoltrarsi poi verso le cucine e i comandi.

Laggiú, ove attraversavano, il fiume era piú largo; nel mezzo c’era un’isoletta coperta di vegetazione e la riva dalla nostra parte era paludosa, tutta a insenature, e coperta da alte erbe secche e da cespugli. Non vi era nessuna traccia di lavoro umano. I russi uscirono improvvisamente dal bosco di querce e trovandosi in mezzo a quel biancore si saranno stupiti battendo le palpebre. Non gridarono, spararono delle brevi raffiche correndo curvi verso l’isolotto nel mezzo del fiume. Qualcuno tirava una slitta. Era una mattina limpida alla luce nuova del sole e guardavo i russi che correvano curvi sul fiume gelato. I mitragliatori di Cenci e le pesanti, in postazione da quelle parti, incominciarono a sparare. Qualcuno nel mezzo del fiume cadeva sulla neve. Raggiunsero l’isolotto, si fermarono un poco a prendere fiato e ripresero a correre verso la nostra riva. Dei feriti ritornavano lentamente verso il bosco da dove erano usciti. Gli altri raggiunsero la nostra riva e si buttarono fra i cespugli e le insenature. Si defilarono cosí dal tiro dei mitragliatori di Cenci che avevano sparato fino allora ma non dalle nostre armi. Stavo con il tenente ad osservare i gruppetti immobili tra i cespugli. Il tenente mandò a prendere la pesante che era dalle parti del Baffo. Postammo l’arma sotto i reticolati. – Saranno ottocento metri, – disse il tenente. Puntai e sparai qualche caricatore. Ma il tiro non era efficace perché l’arma sulla neve era instabile; ogni tanto s’inceppava e in quel budello stretto non era agevole lavorarci attorno. Pure le pallottole laggiú arrivarono perché vedemmo i russi nascondersi tra i cespugli. Il tenente era serio, quasi triste.

Passava il tempo e i russi non riprendevano l’azione, ogni tanto qualcuno usciva e correva per pochi metri e tornava poi a nascondersi. Improvvisamente incominciarono a cadere laggiú delle bombe di mortaio. Scoppiavano cosí precise che parevano messe lí con le mani. Erano i mortai da 81 di Baroni, e Baroni non sciupava né bombe né vino. Cosí finí il primo attacco russo. Non fu un vero e proprio attacco; forse i russi credevano che fossimo molto piú giú di morale e pensavano che, sapendoci accerchiati, avremmo abbandonato i caposaldi al primo accenno di attacco. Quel senso di apprensione e di tensione che era in noi non ci aveva ancora lasciato. Era come se un gran peso ci gravasse sulle spalle. Lo leggevo anche negli occhi degli alpini e vedevo la loro incertezza e il dubbio di essere abbandonati nella steppa: non sentivamo piú i comandi, i collegamenti, i magazzini, le retrovie, ma soltanto l’immensa distanza che ci separava da casa, e la sola realtà, in quel deserto di neve, erano i russi che stavano lí davanti a noi, pronti ad attaccarci.

«Sergentmagiú ghe rivarem a baita?» Quelle parole erano dentro di me, facevano parte della mia responsabilità e cercavo di rincorarmi parlando di ragazze e di sbornie. Tra noi v’erano ancora di quelli che scrivevano a casa: «Sto bene, non preoccupatevi per me, sono il vostro...» ma mi guardavano con occhi mesti e indicando l’ovest mi chiedevano: – Da che parte dovremmo andare in caso di...? Che cosa prenderemmo con noi? – Pure nessuno aveva detto loro come stessero le cose, e nessuno immaginava, ne sono sicuro, quello che ci avrebbe aspettato. Ma sentivamo quello che sente un animale quando fiuta l’agguato.

Alla sera il tenente mi chiamò. – Abbiamo avuto l’ordine di ripiegare –. Cosí mi disse, ripiegare . – Siamo circondati: i carri armati russi sono arrivati al comando di corpo d’armata –. Il tenente mi porse la borsa del tabacco, ma non ero capace di arrotolarmi una sigaretta e me la fece lui.

Verso sera arrivò il rancio e il pane; come sempre era tutto gelato.

I russi ripresero a sparare con l’artiglieria e i mortai.

Incominciava ad essere buio e tra poco sarebbe sorta la luna. Nelle nostre case, in quel momento, erano attorno alla tavola.

Rimanevo poco ora nella tana; ero sempre nelle trincee sulla scarpata del fiume con le bombe e il moschetto.

Pensavo a tante cose, rivivevo infinite cose e mi è caro il ricordo di quelle ore. C’era la guerra, proprio la guerra piú vera dove ero io, ma io non vivevo la guerra, vivevo intensamente cose che sognavo, che ricordavo e che erano piú vere della guerra. Il fiume era gelato, le stelle erano fredde, la neve era vetro che si rompeva sotto le scarpe, la morte fredda e verde aspettava sul fiume, ma io avevo dentro di me un calore che scioglieva tutte queste cose.

Con il tenente notai davanti a noi rumori e movimenti insoliti. Facemmo postar fuori il mitragliatore e portar la pesante fra le macerie di una casa un po’ arretrata, per aver maggior campo di tiro. Gli alpini, silenziosi, stavano nella trincea. Ora avrebbero attaccato proprio noi.

Avrebbero funzionato le armi con quel freddo? Di là si sentiva rumore di motori. Poi ci fu un silenzio strano, quel silenzio che precede qualcosa di grave. Solo le cose e l’ansia del momento c’erano.

Si sentí la voce di uno che incitava e uscirono all’assalto. Salivano sulla scarpata del fiume, si sedevano sulla neve e poi scivolavano sulla riva. Le nostre armi aprirono il fuoco. Tirai un sospiro di sollievo: funzionavano. I mortai da 45 di Moreschi sparavano davanti ai nostri reticolati e le bombette scoppiavano con rumore strano e ridicolo. Quando sentii passare sopra le nostre teste le bombe dei mortai da 81 del sergente Baroni tirai un altro sospiro di sollievo. Sentivo che Baroni guardava giú verso di noi dando i dati di tiro con calma ai suoi uomini e mi pareva che dicesse: «Sta’ tranquillo, sono qui anch’io». E Baroni non sciupava nemmeno parole.

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