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Mario Stern: Il sergente nella neve

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Mario Stern Il sergente nella neve

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Parlava sovente del mio paese, mi guardava fisso con quegli occhi piccoli e neri. Giuanin chiedeva al tenente Sarpi: – Quando rivarem a baita sciur tenente? – Nel quarantotto, Giuanin, nel quarantotto –. Giuanin strizzava l’occhio, ritirava mesto la testa fra le spalle e si allontanava borbottando. Il tenente rideva, lo chiamava e gli dava una Popolare. Questa notte il pattuglione russo è passato di là e lui era già morto, con la neve che gli entrava nella bocca e il sangue che gli usciva sempre piú piano finché si gelò sulla neve.

Nella sua nicchia vicino alla stufa Giuanin mangerà il rancio e penserà: «Ghe rivarem a baita?»

Camminavo solo per i camminamenti. Mi fermai accanto a una vedetta e non dissi niente; guardai da una feritoia la neve sul fiume; non si vedevano piú le peste della pattuglia, ma io le avevo e le ho ancora dentro, come piccole ombre sulla neve di luce ghiacciata.

Andai verso la squadra del Baffo sull’estrema destra.

Era il posto piú tranquillo e sicuro del caposaldo dove il villaggio si diradava tra orti e cespugli. Da quella parte, si preparava una postazione per la pesante e il tenente Moscioni e io avevamo passato parecchie ore lavorando di notte a disporre i sacchetti di terra. In una casetta quasi intatta, una sera, trovammo un’ancora, ordigno strano per noi alpini, e quella piccola isba a un unico ambiente divenne per noi l’isba del pescatore.

Camminavo pensando al pescatore dell’isba: ove sarà adesso? Lo immaginavo vecchio, grande, con la barba bianca come lo zio Jeroska dei Cosacchi del Tolstoj. Da quanto tempo avevo letto quel libro? Ero ragazzo al mio paese. E il tenente Sarpi è morto, stanotte. –

Cos’hai sergentmagiú? – Che bel sole oggi, vero? –

Buon anno, sergentmagiú. – Buon anno, Marangoni. –

Da che parte è l’Italia, sergentmagiú? – Laggiú, vedi?

Laggiú laggiú laggiú. La terra è rotonda, Marangoni, e noi siamo fra le stelle. Tutti.

Marangoni mi guardava, capiva tutto e taceva. E ora anche Marangoni è morto, un alpino come tanti. Un ragazzo era, anzi un bambino. Rideva sempre, e quando riceveva posta mi mostrava la lettera agitandola in alto: – é la morosa, – diceva. E ora anche lui è morto.

Una mattina, smontato all’alba, era salito sull’orlo della trincea a prendere la neve per fare il caffè e vi fu un solo colpo di fucile. Piombò giú nella trincea con un foro in una tempia. Morí poco dopo nella sua tana fra i compagni e non mi sentii il cuore di andarlo a vedere.

Tante volte si era usciti all’alba, anch’io parecchie volte, e nessuno sparava. Anche i russi uscivano e noi non sparavamo mai. Perché ci fu quel colpo quella mattina? E perché morí cosí Marangoni? Forse durante la notte, pensavo, i russi avranno avuto il cambio e questi saranno nuovi. – Bisogna stare attenti e uscire con l’elmetto, – dissi per le tane. Avrei avuto voglia di appostarmi con il fucile e aspettare i russi come si aspetta la lepre. Ma non feci nulla.

La tana della squadra del Baffo era la piú in disordine e puzzolente del caposaldo. Appena entrato non distinsi nulla. V’era una nebbia pesante, gravida di mille odori, sentii brusii di parole e le grida di due alpini che litigavano per avere la pentola dove far bollire i pidocchi. –

Buon giorno a tutti e buon anno! gridai dall’uscio. E con me entrò un soffio di aria fredda e bianca. Qualcuno mi rispose, qualcuno mi tese la mano, qualche altro brontolò fra i denti. Un po’ alla volta incominciai a distinguere le figure che si muovevano. Misi d’accordo i due che litigavano per la pentola. Parlando nel loro dialetto raccontai della pattuglia e della morte del tenente Sarpi. Sapevo che il Baffo mi ascoltava anche se fingeva di dormire. Non mi vedeva volentieri nella sua tana.

Parlava male di me ai suoi uomini; alcuni gli credevano, altri no. Mi spiaceva molto che succedesse questo nel nostro caposaldo dove tutti andavamo d’accordo e ci aiutavamo. Non mi sopportava perché lo chiamavo di notte per far dare il cambio alle vedette e perché gli ordinavo di tener pulite le armi e ordinata la tana. Si lamentava quando la posta non arrivava, quando il rancio era poco, quando era freddo, quando c’era fumo, quando c’era la dissenteria, sempre. Se poi gli arrivava la posta non era contento, e se la stufa non faceva fumo non era contento, se il rancio era sufficiente non era contento, se i pidocchi lo lasciavano tranquillo non era contento, se era caldo non era contento, e gli uomini della sua squadra facevano metà lavoro di quelli di Pintossi. Per fare una postazione impiegavano giornate e giornate, e bisognava star loro dietro ad incitarli di continuo e lavorare di piú per dar loro l’esempio. Per fare il collegamento col Morbegno avevano paura di attraversare la zona deserta. Gli uomini di Pintossi, invece, avevano fatto persino il tubo della stufa con scatolette vuote incastrate l’una nell’altra. Il Baffo era cosí perché stanco di naia. Aveva piú di trent’anni e forse otto di servizio militare: era stato in Africa, poi sorteggiato per la Spagna, poi in Albania e infine qui. Era venuto nella nostra compagnia con i complementi dopo il primo settembre.

Ed era stanco di naia, non ne poteva piú.

Io parlavo nel loro dialetto, forte che mi sentisse anche il Baffo. Chiedevo dei figli a chi li aveva, che strada bisognava prendere per arrivare al loro paese, promettevo che da borghese sarei andato a trovarli. Parlavo delle sbornie che avremmo fatte, delle cantate e del vino nuovo. Dicevo a uno: – Guarda che ti esce una cordata di pidocchi dal collo –. Ridevano allora e un altro diceva a me: – Sergentmagiú, ti esce una pattuglia dalla manica, hanno la falce e il martello sulla schiena, guardali quei sovietici! – Ridevo io, allora, e ridevano tutti. Il Baffo fingeva di dormire. Prima di uscire andando verso di lui lo chiamai e gli tesi la mano. – Buon anno: vedrai che a baita ci arriveremo a fare la sbornia. – Non finisce mai, non finisce mai, – egli mi rispose. Cosí passavamo le giornate: nella tana a scrivere o a pensare guardando i pali di sostegno, oppure a buttar pidocchi sulla piastra arroventata della stufa: diventavano allora tutti bianchi e poi scoppiavano. Di notte si era fuori ad ascoltare il silenzio e a guardare le stelle, a preparar postazioni, a piantare reticolati, a passare da una vedetta all’altra. Molte notti le abbiamo passate a tagliar cespugli e canne davanti alle postazioni di Pintossi. Com’era strano tagliar cespugli e piante con accette e baionette, di là dai reticolati, nelle notti fredde sulla neve! Si capiva che i russi stavano zitti ad ascoltare cosa facevamo. Riunivamo in un gran mucchio davanti a noi tutte le piante tagliate. Ne risultava un bel groviglio che sarebbe stato difficile da attraversare piú dei reticolati. E piú rumoroso.

Quando nevicava, bisognava stare molto attenti e guardinghi per il pericolo dei colpi di mano. Una notte mentre da solo giravo con il camice bianco sopra il pastrano, come un fantasma, mi accorsi di una pattuglia russa che tentava di aggirare il caposaldo. Non vedevo i russi ma sentivo la loro presenza a pochi passi da me.

Stavo zitto e immobile. E loro stavano zitti e immobili.

Sentivo che guardavano nel buio come facevo io, le armi pronte. Avevo paura e quasi tremavo. Se mi avessero preso e portato via? Cercavo di dominarmi ma le vene della gola mi battevano forte. Avevo veramente paura.

Infine mi decisi: gridai, buttai le bombe che avevo in mano, e saltai nel camminamento. Per fortuna una bomba scoppiò. Sentii i russi che correvano e al bagliore vidi che si ritiravano nei cespugli piú vicini. Di là aprirono il fuoco con un’arma automatica. Nel frattempo erano giunti alcuni uomini di Pintossi. Dall’orlo della trincea incominciammo a sparare anche noi. Uno corse a prendere il mitragliatore. Si sparava e poi ci spostavamo di qualche metro. I russi della pattuglia rispondevano al nostro fuoco ma lentamente si allontanavano. Si fermarono poi alquanto lontani e spararono insistentemente con una pesante. Ma alla fine era freddo, loro ritornarono alle loro tane e noi tornammo alle nostre. Se avessero potuto prendere uno di noi forse sarebbero andati in licenza al loro paese. Alla mattina, con il sole, uscii a osservare le tracce che avevano lasciato. In verità erano piú lontane di quanto avessi supposto la notte, e fumando una sigaretta guardavo le loro postazioni al di là del fiume. Ogni tanto vedevo uno di loro che si alzava a prendere la neve dall’orlo della trincea. Faranno il tè, pensavo. Mi venne il desiderio di berne una tazzina. E li guardavo cosí come si guarda da un sentiero un contadino che sparge letame nel campo.

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