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Mario Stern: Il sergente nella neve

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Mario Stern Il sergente nella neve

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I russi correvano, si gettavano a terra, si rialzavano e riprendevano a correre verso di noi. Molti non si alzavano piú; i feriti chiamavano ed urlavano. Gli altri gridavano: Urrà! Urrà! e venivano avanti. Ma non riuscivano ad arrivare sotto i nostri reticolati. Mi sentii sicuro, allora; avrei potuto ancora vivere nella mia tana al caldo e leggere lettere azzurre. Non pensavo ai carri armati che già erano arrivati al comando di corpo d’armata, né quanti chilometri c’erano per arrivare a casa. Mi sentivo tranquillo e sparavo con il moschetto dall’orlo della trincea mirando calmo a quelli che si avvicinavano di piú. E allora incominciai a cantare in piemontese «All’ombretta di un cespuglio – bella pastora che dormiva». Chizzarri, l’attendente del tenente che mi stava a fianco, mi guardò sorpreso smettendo di sparare; poi ricominciò e s’uní a cantare con me. Al chiarore della luna indovinai i visi degli alpini che si spianavano e sorridevano. Vedevo che sparavano calmi, e l’alpino dalla barba secca e rada cambiava, bestemmiando, la canna arroventata del fucile mitragliatore e riprendeva con foga a sparare. I russi si convinsero subito che da noi era impossibile passare e si spostarono piú a sinistra riuscendo ad infiltrarsi nella valletta tra noi e Cenci. Si nascondevano tra i cespugli e le ombre, era difficile scorgerli. Lí vi doveva essere un campo minato ma nessuna mina scoppiò. Baroni spostò il tiro. Qualche alpino ritornò nella tana a prendere cartucce e bombe a mano. Ma avevamo ormai esaurite le munizioni. Durante l’attacco, quando i russi erano giunti sotto i nostri reticolati, avevo gettato quasi una cassa di bombe a mano. Ma poche scoppiavano; sprofondavano nella neve senza rumore. Allora pensai che forse sarebbero scoppiate levando tutte e due le sicurezze prima di lanciarle e feci cosí sebbene fosse pericoloso.

Ritornò il silenzio. Tra noi e Cenci si sentiva qualche breve raffica di mitra.

Sul fiume gelato vi erano dei feriti che si trascinavano gemendo. Sentivamo uno che rantolava e chiamava: –

Mama! Mama!

Dalla voce sembrava un ragazzo. Si moveva un poco sulla neve e piangeva. – Proprio come uno di noi, – disse un alpino: – chiama mamma.

La luna correva fra le nubi; non c’erano piú le cose, non c’erano piú gli uomini, ma solo il lamento degli uomini. – Mama! Mama! – chiamava il ragazzo sul fiume e si trascinava lentamente, sempre piú lentamente, sulla neve.

Ma i russi ricominciano a uscire dal bosco di roveri.

Salgono sulla scarpata e ridiscendono giú sul fiume. Son piú guardinghi di prima; non gridano, sembrano timidi.

Riprendiamo a sparare. Solo che questa volta non vengono per ammazzarci: vogliono solo raccogliere i feriti rimasti sul fiume. Non sparo piú, allora. Grido: – Non sparate! Raccolgono i feriti; non sparate!

Si stupirono i russi a non sentire piú le pallottole che li cercavano: si fermarono increduli, si alzarono in piedi, si guardarono attorno. Gridai: – Non sparate! – Raccolsero in fretta i loro compagni e li caricarono sulle slitte.

Correvano curvi, ogni tanto si alzavano e guardavano verso di noi. Li portarono sino alla scarpata e li trascinarono su nelle loro trincee. Sul fiume gelato la neve era tutta calpestata. Portarono via anche i morti, tranne quelli ch’erano sotto i nostri reticolati.

Ora tutto era finalmente finito. Finito? Chizzarri venne di corsa verso di me. – Vieni, vieni presto dal mio tenente, – diceva. – Sta male, ti vuole, vieni –. Correva nella trincea davanti a me e lo sentivo singhiozzare. –

Cos’è? Ferito? – gridavo. – No, corri, – diceva Chizzarri. Entrammo nella tana della squadra di Pintossi e il tenente Moscioni stava disteso su un pagliericcio. Al chiarore del lume ad olio lo vedevo pallido e rigido; stringeva i denti. Indossava il camice bianco sopra la divisa. Mi inginocchiai al suo fianco, gli presi una mano e strinsi forte. Aprí gli occhi: – Sto male, Rigoni, – disse.

Parlava piano, in un soffio. Gli feci bere un po’ di cognac che aveva Chizzarri. Nella tana tre alpini silenziosi guardavano stringendo tra le mani la canna del fucile. –

Non sono capace di rimettermi in piedi, – riprese. –

Prendi il comando del caposaldo, sta’ attento che quando la luna va sotto le nubi i russi passano il fiume. Non farmi portar via, lasciami qui. Ho ancora la pistola? – e cercava la fondina. Ero chino sopra di lui e non ero capace di parlare.

– Sta’ attento: sei tu, Rigoni? I russi passano il fiume.

In caso di ripiegamento lasciami qui. Ho ancora la pistola. Avrai ordini dal capitano; non andartene prima –. Era rigido e continuavo a stringergli la mano senza parlare.

Ma poi riuscii a dirgli qualcosa. Mi alzai in piedi. – Prendete la barella e portatelo via, – dissi rivolgendomi agli alpini. Non voleva il tenente e faceva cenno di no con la testa. – Ho ancora la pistola, – diceva piano. Gli alpini non sapevano a chi obbedire. – Comando io, ora, qui: andate per piacere –. E poi a Chizzarri: – Dàgli tutto il cognac che c’è, accompagnalo e lasciagli le cose piú necessarie, e ritornate subito –. Piú nessuno parlò. Le ombre si allungarono sulle pareti della tana. Chizzarri, in un angolo, frugava in uno zaino e singhiozzava. Il lume ad olio rendeva la tana piú raccolta; sui pali di sostegno erano inchiodate cartoline con fidanzati, fiori e paesi fra le montagne.

Dietro una vecchia busta che avevo in tasca scrissi dell’accaduto al capitano e mandai un alpino al comando di compagnia: – Digli anche che abbiamo bisogno urgente di munizioni. – Vai, Rigoni, – mi sussurrò il tenente, – i russi passano il fiume.

Ritornai fuori. Appoggiata alla trincea c’era la barella ancora macchiata del sangue di Marangoni.

Si sparse la voce per il caposaldo che il tenente era andato via. Venivano da me i capisquadra a chiedere: –

Che facciamo ora? – Quello che avete fatto sino adesso,

– rispondevo. – State tranquilli, verrà qualche altro ufficiale –. Non mi passò nemmeno per la testa di dire:

«Non s’allontani nessuno», tanto ero sicuro che nessuno se ne sarebbe andato senza un ordine. Minelli mi disse che Lombardi era morto di schianto nella trincea con una pallottola nella fronte mentre sparava in piedi con il mitragliatore imbracciato. Ordinai di farlo portare fino alle cucine, poi avrebbe pensato il cappellano. Moreschi mi fece presente che non aveva piú munizioni per i mortai. Il Baffo era tranquillo, da laggiú non vedevano nemmeno i russi venire all’attacco; non spararono nemmeno un colpo. Feci portare il suo mitragliatore nel settore della squadra di Pintossi che era il punto piú esposto e che doveva essere perciò il piú munito. La pesante non funzionava tanto bene e il Rosso, capoarma, si era preso un calcio dal tenente perché non la curava. Ordinai di smontarla, pulirla, sparare qualche raffica ogni tanto e tenerle sotto un elmetto di brace. Ma anche la pesante era ormai senza munizioni.

– Che cosa aveva il tenente? – mi chiedevano i capisquadra. – È stato preso dal freddo, – rispondevo, – dal sonno e dalla fatica –. Da tanti giorni dormiva poco e non riposava, era impossibile che potesse resistere a lungo. – Vada a dormire, – gli dicevo. – Riposi; vede? è tutto tranquillo ora –. Ma non voleva. Ora le armi, ora le postazioni, ora gli uomini, ora la pattuglia russa. Non voleva. È caduto sfinito come un mulo. – Era come essere di ghiaccio, – mi disse poi in Italia, – non sentivo piú le gambe, le braccia, il corpo, non sentivo piú niente. Mi pareva di essere solo testa e poco anche di questa. Era terribile.

Il capitano mi mandò giú un biglietto. Scriveva che sarebbe venuto un altro ufficiale a prendere il comando del caposaldo e che mi avrebbe mandato le munizioni.

Ricominciammo a sparare. I russi volevano passare il fiume a tutti i costi. Spararono addosso a noi anche con i mortai e me ne accorsi quando sentii sopra il mio capo uno schianto, qualcosa battermi sull’elmetto e sabbia e neve e fumo entrarmi negli occhi. Subito non mi resi conto che cosa fosse accaduto ma poi sentii chiamare aiuto vicino a me. Un alpino della squadra di Pintossi aveva il braccio spezzato e la parte inferiore penzolava giú come se non facesse piú parte del suo corpo. Con uno spago che avevo in tasca legai stretto sopra la ferita per arrestare il sangue che usciva a fiotto. – Il mio braccio! Il mio braccio! – diceva e urlando si teneva con la mano sana il braccio penzolante. – Sei fortunato, gli dicevo mentre legavo, – è una cosa da poco e tra quindici giorni sarai a casa. – Sí? – chiedeva lui, – andrò a casa? –

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