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Mario Stern: Il sergente nella neve

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Mario Stern Il sergente nella neve

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Udii la voce di uno che incitava parlando forte in russo.

Capii qualche parola: patria, Russia, Stalin, lavoratori.

Mandai subito una vedetta per le tane a far uscire gli uomini con tutte le armi. Uscivano in fretta imprecando; con gli occhi pieni di sonno, socchiusi alla luce del sole. Odoravano di fumo. Dissi: – Non sparate se prima non vi do l’ordine; tenetevi pronti –. Era ritornato il silenzio; di là la voce s’era taciuta; di qua tutti erano pronti con le armi puntate. Erano cessati i brontolii, le bestemmie, i passi affrettati, i rumori degli otturatori. I russi sorsero in piedi sull’orlo del bosco, vennero sulla scarpata e tutto era ancora tranquillo. Non un colpo di fucile, non un grido. Erano stupiti di quel silenzio. Forse ci credevano già partiti? Si sedettero sulla neve e scivolarono sulla riva del fiume. Ma quando i primi furono ai piedi della scarpata: – Spara! – gridai all’alpino che vicino a me imbracciava il mitragliatore. Una breve raffica, poi improvvisamente tutte le armi spararono: i quattro mitragliatori, la pesante, i trenta fucili, i quattro mortai di Moreschi, i due di Baroni. Tutte le pallottole battevano dove la scarpata si raccordava al fiume e appena i russi mettevano i piedi sulla riva, dopo la scivolata con i1 sedere, vi rimanevano cuciti contro. Quelli che erano rimasti sull’orlo del bosco e in piedi sulla scarpata rimanevano indecisi e infine ritornavano al riparo nelle loro trincee. Le armi smisero di sparare, ma sulla riva del Don i gemiti e le implorazioni d’aiuto continuavano. I piú tenaci tentavano risalire la riva per ritornare al sicuro e qualcuno vi riusciva. Si sentì nuovamente la voce di prima.

Che diceva? Forse di vendicare i compagni caduti sulla neve o forse dei villaggi distrutti. Riapparvero con piú decisione. Ricominciammo a sparare. Non si fermarono questa volta, né ritornarono indietro. Molti ne caddero sotto la scarpata, molti. Gli altri venivano avanti gridando: –

Urrà! Urrà! – ma pochi riuscivano ad avvicinarsi ai nostri reticolati. Sparavo con il moschetto a quelli che mi sembravano piú impetuosi e che correvano davanti a tutti. Vi erano di quelli che fingevano di essere morti: restavano immobili sul fiume e poi quando non erano piú osservati sorgevano in piedi e riprendevano a correre verso di noi.

Uno si serví di questa astuzia per tre o quattro volte finché, giunto sotto la nostra trincea, fu veramente colpito.

Cadde con la testa e le spalle sprofondate nella neve. Una gamba in aria continuava a fare il movimento dell’arrotino sempre piú lentamente sino a fermarsi.

Doveva essere terribile passare il fiume, camminare cosí sulla neve alla luce del sole, senza il minimo riparo tra pallottole e bombe come tempesta. Solamente i russi potevano osare questo; ma non era possibile arrivare sino a noi. Smisero e ritornò la quiete. Sul fiume la neve era piú rossa e calpestata di prima e piú numerosi erano quelli rimasti sulla neve con le scarpe al sole. Ritornai nella tana. Stavo attorno alla stufa e guardavo il fuoco tenendo il moschetto fra le ginocchia. Gli alpini parlavano dell’attacco che avevano appena finito di respingere.

– Che hai lí, sergentmagiú? – mi chiese Pintossi. E indicò sul mio moschetto il punto dove era attaccata la baionetta ripieghevole. Vidi incastrata una pallottola di mitragliatrice. – L’hai scampata bella, – mi disse Pintossi.

Ricordai allora che durante l’attacco avevo sentito un colpo secco mentre, inginocchiato sulla trincea, osservavo e tenevo il moschetto davanti alla fronte. Gli alpini attorno al fuoco si passavano il moschetto ed osservavano:

– L’hai scampata bella, quando sarai a casa dovrai mettere un quadretto alla Madonna. – Anche due ne puoi mettere. – Se non è la tua ora non parti. – Già è destino...

Levai la pallottola e me la misi nel taschino della giubba dicendo: – Quando sarò a casa ne farò un anello per la morosa.

Finalmente venne il tenente Cenci. Fui contento di vederlo e come si avvicinò gli chiesi: – Come si chiama la tua fidanzata? – Rise e poi guardandomi e vedendomi sporco di sangue disse: – Ma Rigoni, sei ferito? – No, – dissi, – non è mio –. Poi riprese: – Poteva anche essere un russo che mi chiamava stanotte e per questo chiesi a Buogo come si chiamasse la sua fidanzata. Un russo non poteva sapere il nome della ragazza di Buogo. È stato ferito a una gamba da una pallottola che gli ha spezzato l’osso. Hai sigarette, Rigoni? – E me ne porse una. Girammo un po’ per le trincee ma poi entrammo nella tana della squadra di Pintossi. – Non è rimasto nessun russo di qua, Rigoni, – disse Cenci (ma io sapevo che ce n’era ancora uno), – ed abbiamo preso anche due donne. Erano sui quarant’anni e portavano i pantaloni e il parabellum. I conducenti, pur brontolando, le hanno caricate sulle slitte e hanno offerto loro sigarette. Andate a cucinare, borbottavano, e non alla guerra. Al mio caposaldo è venuto il tenente Pendoli. Cerca di riposare e di dormire ora: ne hai bisogno.

Mi buttai sul tavolato: ma non ero capace di addormentarmi. Le bombe nella cacciatora mi premevano sulle reni, le giberne piene di caricatori mi pesavano sullo stomaco. Ma nemmeno in un letto di piuma sarei riuscito a dormire. In una tasca interna della giubba, entro una borsa fatta con un pezzo di tela, tenevo le mie cose piú care; erano lettere e sentivo quelle parole entro di me. Ove sarà ora? Forse in un’aula a leggere poesie in latino o nella sua stanza, e guardando tra vecchi libri e cose morte avrà trovato una stella alpina. Ma sono sciocco a pensare queste cose. Perché non viene il sonno?

Perché non dormo? Cenci mi guardava sorridendo. –

Perché non dormi? – disse. – Come si chiama la tua fidanzata? – Per fortuna venne Tourn a dirmi che era arrivato il rancio e mi recai nella tana di Moreschi a prendere la mia razione. Lí vi era una confusione insolita: coperte in disordine, sporco per terra, la paglia sparsa assieme a calze e fazzoletti e mutande. Parlavano sottovoce. Giuanin non mi disse niente. Mi guardò e nei suoi occhi cíerano tutte le cose che voleva chiedermi. Tourn non rideva piú e i suoi baffi neri sempre ben curati erano sporchi di muco. Meschini era indaffarato intorno allo zaino. Tutti gli altri facevano qualcosa. Due erano fuori nelle postazioni dei mortai. Solo Giuanin non faceva nulla, stava nella nicchia vicino alla stufa fredda. –

Meschini, – domandai, – perché non fai la polenta? Ho fame; è meglio farla ancora una volta.

Mangiai la mia razione di rancio, ma senza alcun gusto. Arrivò qualche colpo di mortaio attorno alla nostra tana e uno sopra. Ma il nostro bunker era solido e ben fatto: filtrò soltanto un po’ di terra e si ruppero i vetri.

Il rumore del cucchiaio nelle gavette era piú strano dei colpi di mortaio.

Prima di uscir fuori dissi: – Ricordatevi che dobbiamo restare sempre uniti.

Ritornai dal tenente Cenci e assieme ci avviammo verso una postazione. Eravamo soli. – Stasera dobbiamo ripiegare –. Cosí disse. – Sono venuto qui apposta per dirtelo.

Stasera dobbiamo ripiegare. Prendi, fuma. Io ritornerò al mio caposaldo; forse verrà qui il tenente Pendoli, forse dovrai arrangiarti da solo. Le squadre lasceranno il caposaldo una alla volta. La prima si fermerà a metà strada con le armi pronte fra te e me, e aspetterà la seconda per ripartire. Cosí di seguito fino all’ultimo uomo. L’appuntamento è alle cucine per le ore... – e disse un numero che non ricordo. – Ci sarà tutta la compagnia che ti aspetterà. Pensa tu a stabilire il turno per le squadre –. Non risposi nulla e solo quando fu terminata la sigaretta dissi: – Va bene.

Ritornai nella mia tana a preparare lo zaino; mi cambiai con biancheria pulita e lasciai sulla paglia quella sporca e impidocchiata. Cercai di mettermi addosso quanta piú roba potevo senza averne i movimenti impacciati. Mi rimasero due paia di calze e una maglia che cacciai nello zaino assieme al pacchetto di medicazione, ai viveri di riserva, a una scatola di grasso anticongelante e a una coperta da campo. Completai lo zaino con munizioni, in maggior parte bombe a mano. Aiutato da Tourn provai a mettermelo sulla schiena, ma forse era ancora troppo pesante. Bruciai, poi, tutte le lettere e le cartoline che avevo, tranne un piccolo fascio. I libri li lasciai nella tana. «Saranno curiosi i russi di sapere che cosa c’è scritto», pensavo. Ma che male nel compiere queste cose. Dissi forte: – Vestitevi piú che potete ma senza restar stretti. Mettete nello zaino le cose che credete piú necessarie e piú munizioni che potete.

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