Mario Stern - Il sergente nella neve
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- Название:Il sergente nella neve
- Автор:
- Издательство:Einaudi
- Жанр:
- Год:2001
- Город:Torino
- ISBN:9788806160319,8806160311
- Рейтинг книги:4 / 5. Голосов: 2
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Era notte e molto freddo, e si era con le scarpe nella neve in attesa di ordini. Vedevo che il capitano era stanco da non poterne piú. Il tenente Cenci, avvolto in una coperta come in uno scialle, fumava una sigaretta dietro l’altra e ogni tanto bestemmiava. Quando succhiava il fumo vedevo la braccia accendersi come un occhio di gatto. Parlava un poco con un alpino del suo plotone e bestemmiava in modo gentile con voce armoniosa e da salotto. Mi si avvicinò: – Come va, Vecio? – disse. – Va bene, – risposi, – va bene; ma fa un po’ freddo –. Naia potente se faceva freddo!
Attorno a noi c’era una gran confusione; si sentiva parlare tedesco, ungherese, e italiano in tutti i dialetti.
Poco lontano bruciavano delle isbe e dei magazzini e la neve attorno riverberava la luce rossastra sino ai limiti del villaggio, dove poi incominciava la steppa. E laggiú bruciava anche il paese che avevamo lasciato nel pomeriggio. Ogni tanto si sentivano scoppi e rumore di motori ma pareva che di là dal chiarore rossastro degli incendi non vi fosse piú nulla. Il mondo finiva là. Diavolo! e noi dovevamo andare piú avanti di quel buio. Ma le scarpe erano come legno, la neve secca come sabbia e le stelle pareva che strappassero la pelle come speroni. Nel paese non era rimasto nessuno; non c’erano nemmeno vacche, pecore, oche. Lontano, nel buio, si sentivano abbaiare i cani. I nostri muli erano con noi; e con le orecchie abbassate sognavano le mulattiere delle Alpi e l’erba tenera. Mandavano vapore dalle narici come le balene; avevano il pelo coperto di brina e mai erano stati cosí lustri. E i pidocchi anche c’erano; i nostri pidocchi che se ne fregavano di tutto e stavano al caldo nei posti piú reconditi. Ecco, pensavo, se dovessi morire i pidocchi che ho addosso che fine farebbero? Creperanno piú tardi di me quando il sangue nelle vene sarà come vetro rosso oppure resisteranno sino a primavera?
Quando, al caposaldo, mettevamo fuori le maglie con quaranta gradi di freddo per due giorni e due notti e le indossavamo dopo averle asciugate vicino alla stufa subito i pidocchi si facevano vivi. Erano robusti e forti.
– Rigoni, vuoi una sigaretta? – dice Cenci. Fumo, almeno il fumo è caldo. Antonelli impreca: – Ci muoviamo o no? Che facciamo qui? – E bestemmia.
Ascoltando quelli che erano qui prima di noi veniamo a sapere che i carri armati russi, arrivati fin qui, hanno portato il terrore. Ma ora siamo in tanti: una divisione ungherese, un corpo corazzato tedesco, la divisione Vicenza, quello che è rimasto della Julia, la Cuneense e noi della Tridentina. E poi tutti i servizi: autoreparti, sussistenza, genio, sanità, ecc. Buona parte di questi ultimi hanno già abbandonato le armi nella neve e sono convinti di essere già prigionieri. Prigionieri si è, penso e dico, quando un soldato russo ti fa camminare dove vuole puntandoti un fucile, ma non come ora.
– Sergentmagiú, ghe rivarem a baita? – È Giuanin che si è avvicinato. – Ghe rivarem sí, Giuanin, – gli dico, – ma non pensarci ora alla baita, salta tra la neve per non gelarti i piedi –. Finalmente il maggiore Bracchi che si era allontanato in cerca di ordini, ritorna. Ci muoviamo finalmente, ma torniamo indietro. – Andiamo di retroguardia, – dice il tenente Pendoli. – Sempre a noi tocca,
– brontoliamo. (E quelli del Tirano diranno altrettanto).
– Vestú! Avanti da questa parte, – grida Bracchi.
Si cammina nella neve alta; ogni tanto si batte la testa sull’elmetto del compagno che sta avanti e ogni tanto bisogna correre per star sotto. I magazzini e le isbe bruciano e qua e là si sente gridare in tedesco. Passiamo vicino a dei grossi panzer col motore acceso (per non gelare, penso). Camminando cosí nella neve do dentro col piede in un barattolo e lo raccolgo. È mezzo pieno e al chiarore di un incendio vedo che contiene roba da mangiare. Introduco la mano senza levarmi il guanto: questa è la manna di Mosè: marmellata e burro mescolati assieme. Mi lecco il guanto e i baffi; mangio camminando e mangiano quelli che mi sono vicino.
Non so quanto abbiamo camminato; ogni passo pareva un chilometro e ogni attimo un’ora; non si arrivava mai e non finiva mai. Finalmente ci fermiamo a delle isbe isolate. Sistemo il mio plotone in un edificio in muratura: saranno state le scuole o la casa dello starosta. Vi troviamo anche dei soldati dell’autocentro. Questi sono come i pidocchi: s’annidano dappertutto. E c’è un fuoco, e c’è caldo e persino paglia sul pavimento. Ah! com’è bello buttarsi giú e cavarsi l’elmetto e mettere lo zaino sotto la testa stretti al caldo uno vicino all’altro.
Finalmente possiamo chiudere gli occhi e dormire.
Ma chi è che mi chiama lí fuori? Andate al diavolo, lasciatemi dormire. Uno apre la porta e fa il mio nome: –
Va’ dal capitano, ti vuole –. Ho dentro un fuoco che mi brucia. Mi alzo, i miei compagni sono già addormentati e russano. Per uscire devo pestare i loro piedi: bestemmiano, aprono gli occhi, si girano dall’altra parte e ritornano a dormire. Fuori è freddo; è tutto silenzio, il portaordini non c’è piú, tante stelle ci sono invece come in un cielo di settembre. Ma erano belle allora le notti di settembre nei campi di grano e papaveri; tiepide e amorose come la terra queste stelle. Ora non so se è un incubo o se uno spirito maligno si diverte alle mie spalle. Non c’è nessuno fuori e vado a cercare il capitano che mi vuole. Che avrà da dirmi? Cerco in uníisba e non lo trovo, busso alle altre. Mi rispondono in tedesco: – Raus! – o in bresciano: – Inculet!
– Trovo i fucilieri della mia compagnia e mi chiedono se voglio entrare a dormire da loro. – Cerco il capitano, – dico. – È qui? – No, – mi rispondono. Giro tra i cavalli degli ungheresi e cerco i1 capitano; lo chiamo per le piste che portano nella steppa. Nessuno mi risponde. Le stelle mi straziano la carne, mi viene da piangere e da maledire.
Vorrei istintivamente uccidere qualcuno. Pesto con ira la neve; agito le braccia; faccio crocchiare i denti; i sassi mi ballano nella gola. Calmati! Non impazzire! Calma! Ritorna nell’isba del tuo plotone, ritorna a dormire. Chissà cosa ti attenderà domani. Domani! Ma è già líalba, laggiú incomincia il crepuscolo. Le mattine al caposaldo quando rientravo nella tana calda ed era pronto il caffè; le mattine prima di venir soldato quando andavo per legna e sentivo il canto degli urogalli, le mattine che salivo alle malghe con il mulo grigio. E lei starà dormendo tra lenzuola di bucato, nella sua città di mare, e dal mare entrerà nella stanza il primo chiarore dell’alba. Ma sarebbe meglio buttarsi su quel mucchio di neve e dormire, chissà come sarà morbida. All’erta, sta’ all’erta, cerca l’isba del tuo plotone. Stringo i denti e i pugni e do calci nella neve. Ritrovo l’isba, entro e mi lascio cadere fra i corpi caldi dei miei compagni.
Ma non dormo forse nemmeno un’ora perché Cenci batte alla porta e dice forte: – Plotone mitraglieri sveglia! Fate presto, si parte. Rigoni sveglia! – E sento i miei compagni che si alzano in silenzio e arrotolano le coperte e poi le bestemmie di Antonelli. Come desidererei dormire, dormire ancora un poco, un poco solo; non ne posso piú; o impazzisco o mi sparo. Ma pure mi alzo, esco, raduno il plotone, controllo per vedere chi manca; vado in cerca dei ritardatari e facendo questo ritorno quello di sempre. Non penso piú né al sonno né al freddo. Mi assicuro se non abbiamo lasciato nulla nell’isba, munizioni o armi. Controllo i presenti, guardo se le armi sono pulite, tiro il carrello di armamento e premo il bottone a vuoto. Questo mio fisico è davvero meraviglioso: muscoli, nervi, ossa; non credevo prima d’ora che potesse sopportare tanto. Ci avviamo verso l’altra estremità del villaggio. Gli altri plotoni della compagnia sono già partiti e noi siamo gli ultimi. Sorpassiamo le slitte degli ungheresi e un gruppo di artiglieria alpina. Nel fondo di una balca non tanto profonda ci riuniamo alla compagnia. Ma il capitano manca. Il maggiore Bracchi, impaziente, cammina avanti e indietro sulla neve.
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