Alessandro Baricco - Mr Gwyn

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Jasper Gwyn, scrittore dal discreto successo, decide da un giorno all’altro che non ha più intenzione di scrivere. O perlomeno di scrivere romanzi. Il gesto dello scrivere però gli manca, sente il bisogno di continuare a mettere in fila le parole come aveva fatto per la maggior parte della sua vita. Diventare “copista” gli appare dunque la soluzione ideale: non di cifre o parole, bensì di persone. Inizia così a fare ritratti per, come dice lui, “riportare a casa le persone”. Adibisce un ex garage a studio di posa, lo illumina con lampadine dalla luce “infantile” e ciò che ne scaturisce è un qualcosa che solo un personaggio complesso e surreale come Jasper Gwyin poteva concepire. Non mancheranno gli imprevisti e più di una volta il fragile sogno su cui tutto è costruito rischierà di infrangersi. Il finale non può che sorprendere.

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– Lo sapevo, disse.

Premette un po’ le dita sulla nuca dell’amico.

Jasper Gwyn se ne andò che Tom si era addormentato. Aveva una mano appoggiata sui fogli del ritratto, e a Jasper Gwyn parve la mano di un bambino.

51.

Rebecca era in ufficio quando arrivò la notizia che Tom non ce l’aveva fatta. Si alzò e senza nemmeno prendere le sue cose scese in strada. Camminò veloce, come non faceva mai, certa di quale fosse la strada da fare e incurante di ogni cosa, attorno. Giunse alla casa di Jasper Gwyn e si attaccò al campanello. Era così ferma nel desiderare che quella porta si aprisse che la porta, alla fine, si aprì. Rebecca non disse nulla, ma si buttò fra le braccia di Jasper Gwyn, il solo posto al mondo in cui, aveva deciso, sarebbe stato giusto piangere e non smettere per ore.

Come accade spesso, ci misero un po’ a ricordarsi che, quando muore qualcuno, agli altri spetta di vivere anche per lui – altro non c’è, di adatto.

52.

Così il quarto ritratto Jasper Gwyn lo fece all’unico amico che aveva, poche ore prima che morisse.

Poi gli fu difficile ricominciare, per tante ragioni prevedibili, ma anche per l’inaspettata sensazione che fare quei ritratti fosse anche un modo di sfidare una persona che adesso non c’era più, e attraverso la quale, probabilmente, lui si era convinto di sfidare tutto quel mondo dei libri a cui voleva sfuggire. Ora non aveva più nessuno da convincere tranne se stesso, e il riserbo in cui aveva sempre immaginato il suo mestiere di copista era divenuto una sorta di battaglia privata senza quasi testimoni. Ci mise un po’ ad abituarsi all’idea che fosse così, e a ritrovare la limpidezza di un desiderio necessario. Dovette tornare indietro a ricordarsi la purezza di quello che cercava, e la pulizia che gli era accaduto di desiderare, nel cuore del proprio talento. Lo fece con calma, lasciando che risalisse da sé la gioia che sapeva – la voglia. Poi, gradatamente, si rimise al lavoro.

Il quinto ritratto dovette farlo al ragazzo che dipingeva, e la cosa non gli piacque affatto perché si trattò di ricominciare da capo – una cosa obiettivamente destinata al fallimento. Il sesto lo fece a un attore di quarantadue anni con un corpo stranissimo, da uccello, e un volto memorabile, come intagliato nel legno. Il settimo a due giovani molto ricchi che si erano appena sposati e avevano insistito per posare insieme. L’ottavo lo fece a un medico che per sei mesi all’anno navigava sui mercantili, in giro per il mondo. Il nono a una donna che voleva dimenticare tutto, tranne se stessa e quattro poesie di Verlaine – in francese. Il decimo a un sarto che aveva vestito la regina, senza esserne particolarmente fiero. L’undicesimo a una ragazzina – e quello fu l’errore.

Rebecca, che selezionava gli aspiranti cercando di mettere al riparo Jasper Gwyn da soggetti inadatti, non l’aveva in realtà mai incontrata. Ma c’era una ragione: da lei si era presentato il padre, che non era uno qualunque ma Mr Trawley, l’antiquario in pensione, il primo uomo al mondo che avesse accettato di versare del denaro per farsi ritrarre da Jasper Gwyn. La ragazzina era la sua figlia più piccola, si chiamava Audrey. Con il garbo e la civiltà che Rebecca si ricordava di aver apprezzato quando l’aveva conosciuto, Mr Trawley le aveva spiegato che sua figlia era una ragazza difficile e lui si era convinto che un’esperienza singolare come quella da lui vissuta nello studio di Jasper Gwyn l’avrebbe forse potuta aiutare a trovare una tregua – disse esattamente così – dove recuperare una qualche serenità. Aggiunse che qualsiasi cosa avesse scritto Jasper Gwyn nel suo ritratto sarebbe stata per sua figlia una traccia più nitida di qualsiasi riflesso allo specchio e più convincente di ogni insegnamento.

Rebecca ne parlò con Jasper Gwyn e insieme decisero che si poteva fare. La ragazzina aveva diciannove anni. Entrò nello studio un lunedì di maggio. Erano passati sedici mesi da quando lo aveva fatto suo padre.

53.

Stava nuda come se fosse una sfida – il suo corpo così giovane, un’arma. Parlava spesso, e benché Jasper Gwyn non accennasse a risponderle e a più riprese si fosse spinto a spiegarle come un certo silenzio fosse indispensabile alla riuscita del ritratto, lei ogni giorno riprendeva a parlare. Non raccontava niente, non stava cercando di spiegare qualcosa: salmodiava un odio perenne, e una cattiveria indiscriminata. Era splendida, nel farlo, per nulla bambina, e tremendamente animale. Insultò per giorni, e in modo ferocemente elegante, i suoi genitori. Poi divagò brevemente sulla scuola e gli amici, ma era chiaro che lo faceva in modo frettoloso, impreciso, perché un altro era il punto a cui voleva arrivare. Jasper Gwyn aveva rinunciato a zittirla, e si era abituato a considerare la sua voce un particolare del suo corpo, solo più intimo di altri e in qualche modo più pericoloso – un artiglio. Non stava attento a ciò che diceva, ma quella cantilena tagliente finì per risultargli così vivida e seducente da fargli sembrare la nube sonora di David Barber vagamente inutile, se non addirittura fastidiosa. Il dodicesimo giorno la ragazzina arrivò dove voleva arrivare, cioè a lui. Prese ad aggredirlo, verbalmente, con delle fiammate che alternava a silenzi in cui si limitava a fissarlo, con un’intensità insopportabile. Jasper Gwyn divenne incapace di lavorare, e nei passaggi a vuoto della mente arrivò a capire che c’era qualcosa, in quella aggressione, di tremendamente perverso e seduttivo. Non era sicuro di essere in grado di difendersene. Resistette due giorni, poi il terzo non si presentò allo studio. Lo stesso fece per i quattro giorni che seguirono. Tornò il quinto giorno, quasi sicuro di non trovarla, e stranamente turbato all’idea di non sbagliarsi. Ma lei era lì. Stette in silenzio tutto il tempo. Jasper Gwyn la trovò, per la prima volta, di una bellezza pericolosa. Riprese a lavorare, ma con una fastidiosa confusione in testa.

La sera, tornato a casa, ricevette una telefonata di Rebecca. Era successa una cosa spiacevole. Su un tabloid del pomeriggio, senza particolare evidenza ma con i consueti toni ineleganti, si raccontava la curiosa storia di uno scrittore che eseguiva ritratti, in uno studio dietro a Marylebone High Street. Se ne taceva il nome, ma si menzionava il costo dei ritratti (leggermente gonfiato) e si davano molti particolari sullo studio. C’era un paragrafo, malizioso, sulla nudità dei modelli e un altro in cui si citavano incensi, luci soffuse e musiche new age. Secondo il tabloid farsi fare un ritratto in quel modo era già diventata, presso una certa buona società londinese, la moda del momento.

Da sempre Jasper Gwyn aveva temuto qualcosa del genere. Ma col tempo lui e Rebecca avevano capito che il modo di lavorare in quello studio portava la gente a diventare estremamente gelosa del proprio ritratto e istintivamente incline a non intaccare la bellezza di quell’esperienza con qualcosa che non fosse il conservarne una memoria privata. Ne parlarono un po’, ma ripassando tutti coloro che erano stati nello studio non riuscirono a trovarne uno che avrebbe potuto, realmente, prendersi la briga di contattare un tabloid e mettere su tutto quel casino. Fu inevitabile, alla fine, pensare alla ragazzina. Jasper Gwyn non aveva raccontato nulla di cosa stava accadendo con lei, nello studio, ma Rebecca sapeva leggere ormai ogni piccolo particolare e non le era sfuggito che là dentro qualcosa non stava funzionando come al solito. Provò a fare delle domande e Jasper Gwyn si limitò ad annotare che quella ragazzina aveva un talento tutto speciale per la cattiveria. Non volle aggiungere altro. Decisero che Rebecca sarebbe stata attenta a come la voce sarebbe rimbalzata sui media, e che per il momento Tunica cosa da fare era tornare a lavorare.

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