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Alessandro Baricco: Mr Gwyn

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Alessandro Baricco Mr Gwyn

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Jasper Gwyn, scrittore dal discreto successo, decide da un giorno all’altro che non ha più intenzione di scrivere. O perlomeno di scrivere romanzi. Il gesto dello scrivere però gli manca, sente il bisogno di continuare a mettere in fila le parole come aveva fatto per la maggior parte della sua vita. Diventare “copista” gli appare dunque la soluzione ideale: non di cifre o parole, bensì di persone. Inizia così a fare ritratti per, come dice lui, “riportare a casa le persone”. Adibisce un ex garage a studio di posa, lo illumina con lampadine dalla luce “infantile” e ciò che ne scaturisce è un qualcosa che solo un personaggio complesso e surreale come Jasper Gwyin poteva concepire. Non mancheranno gli imprevisti e più di una volta il fragile sogno su cui tutto è costruito rischierà di infrangersi. Il finale non può che sorprendere.

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Alessandro Baricco Mr Gwyn Tout commence par une interruption Paul Valéry - фото 1

Alessandro Baricco

Mr Gwyn

Tout commence par une interruption.

Paul Valéry

1.

Mentre camminava per Regent’s Park – lungo un viale che sempre sceglieva, tra i tanti – Jasper Gwyn ebbe d’un tratto la limpida sensazione che quanto faceva ogni giorno per guadagnarsi da vivere non era più adatto a lui. Già altre volte lo aveva sfiorato quel pensiero, ma mai con simile pulizia e tanto garbo.

Così, tornato a casa, si mise a scrivere un articolo che poi stampò, infilò in una busta, e portò personalmente, attraversando la città, alla redazione del “Guardian”. Lo conoscevano. Saltuariamente collaborava con loro. Lui chiese se era possibile aspettare una settimana prima di pubblicarlo.

L’articolo consisteva in una lista di cinquantadue cose che Jasper Gwyn si riprometteva di non fare mai più. La prima era scrivere articoli per il “Guardian”. La tredicesima era incontrare scolaresche fingendosi sicuro di sé. La trentunesima, farsi fotografare con la mano sul mento, pensoso. La quarantasettesima, sforzarsi di essere cordiale con colleghi che in verità lo disprezzavano. L’ultima era: scrivere libri. In certo modo chiudeva il vago spiraglio che poteva aver lasciato la penultima: pubblicare libri.

Va detto che in quel momento Jasper Gwyn era uno scrittore piuttosto di moda in Inghilterra e discretamente conosciuto all’estero. Aveva debuttato dodici anni prima con un thriller ambientato nella campagna gallese ai tempi del thatcherismo: un caso di misteriose sparizioni. Tre anni dopo aveva pubblicato un romanzo breve che raccontava di due sorelle intenzionate a non vedersi mai più: per un centinaio di pagine cercavano di realizzare il loro modesto desiderio, tuttavia la cosa risultava impossibile. Il libro terminava con una magistrale scena su un molo, d’inverno. A parte un saggetto su Chesterton e due racconti pubblicati in differenti raccolte collettive, l’opera di Jasper Gwyn si chiudeva con un terzo romanzo, lungo cinquecento pagine. Era la pacata confessione di un vecchio olimpionico di scherma, ex capitano di marina, ex presentatore di varietà radiofonici. Era scritto in prima persona e si intitolava A fari spenti. Iniziava con questa frase: “Spesso ho riflettuto sul seminare e sul raccogliere”.

Come era stato notato da molti, i tre romanzi erano così diversi tra loro da rendere arduo riconoscerli come frutti della stessa mano. Il fenomeno era piuttosto curioso, ma non aveva impedito a Jasper Gwyn di diventare in breve tempo uno scrittore riconosciuto dal pubblico e rispettato da gran parte della critica. Il suo talento nel raccontare era d’altronde indubbio, e in particolare sconcertava la facilità con cui sapeva calarsi nella testa delle persone e ricostruire i loro sentimenti. Sembrava conoscere le parole che ognuno avrebbe detto, e pensare in anticipo i pensieri di ciascuno. Non c’è da stupirsi se a molti, in quegli anni, era sembrato ragionevole pronosticargli una brillante carriera.

All’età di quarantatré anni, tuttavia, Jasper Gwyn scrisse per il “Guardian” un articolo in cui elencava cinquantadue cose che da quel giorno non avrebbe fatto mai più. E l’ultima era: scrivere libri.

La sua brillante carriera era già finita.

2.

La mattina in cui uscì l’articolo sul “Guardian” – con grande evidenza, nell’inserto domenicale – Jasper Gwyn era in Spagna, a Granada: gli era parso opportuno, nella circostanza, mettere tra sé e il mondo una certa distanza. Aveva scelto un alberghetto tanto modesto da non prevedere il telefono in camera, così quella mattina dovettero salire ad avvertirlo che c’era una chiamata per lui, sotto, all’ingresso. Lui scese in pigiama e si avvicinò malvolentieri a un vecchio telefono laccato in giallo, posato su un tavolino di vimini. Appoggiò all’orecchio la cornetta e quella che sentì era la voce di Tom Bruce Shepperd, il suo agente.

– Cos’è questa storia, Jasper?

– Quale storia?

– Le cinquantadue cose. Le ho lette stamattina, mi ha passato il giornale Lottie, ero ancora a letto. A momenti mi veniva un colpo.

– Forse avrei dovuto avvertirti.

– Non mi dirai che è una cosa seria. E una provocazione, una denuncia, cosa diavolo è?

– Niente, un articolo. Ma è tutto vero.

– In che senso?

– Voglio dire, l’ho scritto seriamente, è esattamente quello che ho deciso.

– Stai dicendomi che smetti di scrivere?

– Sì.

– Ma sei pazzo?

– Adesso devo proprio andare, sai?

– Aspetta un attimo, Jasper, dobbiamo parlarne, se non ne parli con me che sono il tuo agente…

– Non c’è niente da aggiungere, smetto di scrivere e basta.

– La sai una cosa, Jasper, mi stai ascoltando?, la sai una cosa?

– Sì, ti sto ascoltando.

– Allora ascoltami, io quella frase l’ho già sentita decine di volte, io me la son sentita dire da un numero di scrittori che tu neanche ti immagini, l’ho sentita pronunciare anche da Martin Amis, mi credi?, sarà stato una decina d’anni fa, Martin Amis mi disse quelle esatte parole, smetto di scrivere, ed è solo un esempio, ma potrei fartene una ventina, vuoi che ti faccia la lista?

– Non credo sia necessario.

– E sai una cosa? Non uno che abbia smesso davvero, non esiste di smettere.

– D’accordo, ma adesso devo proprio andare, Tom.

– Non uno.

– D’accordo.

– Bell’articolo, comunque.

– Grazie.

– Un vero sasso nello stagno.

– Non dire quella frase, ti prego.

– Cosa?

– Niente. Adesso vado.

– Ti aspetto a Londra, quando vieni?, Lottie sarebbe strafelice di vederti.

– Sto per staccare, Tom.

– -Jasper, fratellone, non fare scherzi.

– Ho staccato, Tom.

Quest’ultima frase però la disse dopo aver staccato quindi Tom Bruce Shepperd non la sentì.

3.

Nell’alberghetto spagnolo Jasper Gwyn rimase, piacevolmente, per sessantadue giorni. Al momento di pagare il conto, nelle sue spese extra figuravano sessantadue tazze di latte freddo, sessantadue bicchieri di whisky, due telefonate, un salatissimo conto in lavanderia (centoventinove items) e l’importo per l’acquisto di una radio a transistor – il che può gettare una certa luce sulle sue inclinazioni.

Data la distanza, e l’isolamento, per tutto il suo soggiorno a Granada Jasper Gwyn non dovette tornare sull’argomento del suo articolo se non saltuariamente, tra sé e sé. Solo gli accadde, un giorno, di incontrare una giovane donna slovena con cui finì per intrecciare una piacevole conversazione, nel giardino interno di un museo. Era brillante e sicura di sé, parlava un discreto inglese. Gli disse che lavorava all’Università di Lubiana, nel dipartimento di storia moderna e contemporanea. Era in Spagna a fare delle ricerche: stava lavorando alla storia di una nobildonna italiana che, a fine Ottocento, girava l’Europa alla ricerca di reliquie.

– Sa, il traffico di reliquie, in quegli anni, era l’hobby di una certa aristocrazia cattolica, gli spiegò.

– Davvero?

– Pochi la conoscono, ma è una storia affascinante.

– Me la racconti.

Cenarono insieme, e al dessert, dopo aver a lungo raccontato di tibie e falangi di martiri, la donna slovena prese a parlare di sé, e in particolare di quanto si sentisse fortunata a fare il mestiere di ricercatrice, mestiere che lei considerava bellissimo. Aggiunse che naturalmente tutto quello che “stava attorno a quel mestiere” era agghiacciante, i colleghi, le ambizioni, la mediocrità, l’ipocrisia, tutto. Ma disse anche che per quanto la riguardava non sarebbero bastati quattro poveretti a farle passare la voglia di studiare e di scrivere.

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