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Alessandro Baricco: Mr Gwyn

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Alessandro Baricco Mr Gwyn

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Jasper Gwyn, scrittore dal discreto successo, decide da un giorno all’altro che non ha più intenzione di scrivere. O perlomeno di scrivere romanzi. Il gesto dello scrivere però gli manca, sente il bisogno di continuare a mettere in fila le parole come aveva fatto per la maggior parte della sua vita. Diventare “copista” gli appare dunque la soluzione ideale: non di cifre o parole, bensì di persone. Inizia così a fare ritratti per, come dice lui, “riportare a casa le persone”. Adibisce un ex garage a studio di posa, lo illumina con lampadine dalla luce “infantile” e ciò che ne scaturisce è un qualcosa che solo un personaggio complesso e surreale come Jasper Gwyin poteva concepire. Non mancheranno gli imprevisti e più di una volta il fragile sogno su cui tutto è costruito rischierà di infrangersi. Il finale non può che sorprendere.

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– Sono lieto di sentirglielo dire, commentò Jasper Gwyn. Allora la donna gli chiese che mestiere facesse lui. Jasper

Gwyn esitò un po’, e poi finì per mentire a metà. Disse che per una dozzina d’anni aveva fatto l’arredatore, ma da due settimane aveva smesso. La donna ne parve dispiaciuta e gli chiese per quale ragione avesse abbandonato un lavoro che aveva l’aria di essere così piacevole. Jasper Gwyn fece un vago gesto nell’aria. Poi disse una frase incomprensibile.

– Un giorno mi sono accorto che non mi importava più di nulla, e che tutto mi feriva a morte.

La donna parve incuriosita, ma Jasper Gwyn fu abile a portare la conversazione su altri temi, scivolando lateralmente sul vizio di mettere la moquette in bagno, e poi dilungandosi sul primato delle civiltà meridionali, dovuto al loro conoscere il significato esatto del termine luce.

Molto tardi, quella sera, si salutarono, ma lo fecero così lentamente che la giovane donna slovena ebbe il tempo di trovare le parole adatte per dire che sarebbe stato bello, quella notte, passarla insieme.

Jasper Gwyn non ne era così sicuro, ma la seguì nella sua stanza d’albergo. Poi, misteriosamente, non risultò complicato mescolare in un letto spagnolo la fretta di lei e la cautela di lui.

Due giorni dopo, quando la donna slovena partì, Jasper Gwyn le lasciò una lista da lui compilata di tredici marche di whisky scozzese.

– Cosa sono?, chiese lei.

– Bei nomi. Te li regalo.

Jasper Gwyn trascorse a Granada ancora sedici giorni. Poi se ne andò anche lui, dimenticando nell’alberghetto tre camicie, una calza spaiata, un bastone da passeggio con testa d’avorio, un bagnoschiuma al sandalo e due numeri di telefono scritti a pennarello sulla tenda di plastica della doccia.

4.

Tornato a Londra, Jasper Gwyn trascorse i primi giorni a camminare per le strade della città in modo prolungato e ossessivo, con la deliziosa convinzione di essere diventato invisibile. Poiché aveva smesso di scrivere, in cuor suo aveva smesso di essere un personaggio pubblico – non c’era ragione che la gente lo notasse, adesso che era ridiventato uno qualunque. Prese a vestirsi senza cautela, e tornò a fare tante piccole cose senza il retropensiero di risultare presentabile nel caso in cui, improvvisamente, un lettore lo avesse riconosciuto. La posizione che assumeva al bancone del pub, ad esempio. Viaggiare in bus senza biglietto. Mangiare da solo al McDonald’s. Ogni tanto qualcuno lo riconosceva, e allora lui negava di essere chi era.

C’erano un sacco di altre cose di cui non si doveva più occupare. Era come uno di quei cavalli che, scosso il fantino, tornano indietro, svagati, al piccolo trotto, mentre gli altri sono ancora a farsi scoppiare il cuore inseguendo un traguardo e un qualsiasi ordine d’arrivo. La delizia di un simile stato d’animo era infinita. Quando gli accadeva di incrociare un articolo di giornale o una vetrina di libreria che gli ricordavano la rissa da cui si era appena ritirato, sentiva il cuore farsi leggero, e respirava un’infantile ebbrezza da sabato pomeriggio. Erano anni che non si sentiva così bene.

Anche per questo tardò un po’ a prendere le misure della sua nuova vita, prolungando quel personale clima da vacanza. L’idea, maturata durante il soggiorno in Spagna, era quella di tornare al mestiere che faceva prima di pubblicare romanzi. Non sarebbe stato difficile, e nemmeno sgradevole. Ci vedeva perfino una certa eleganza formale, una sorta di andamento strofico, da ballata. Niente però lo spingeva ad affrettare quel ritorno, giacché Jasper Gwyn viveva solo, non aveva famiglia, spendeva poco, e in definitiva per almeno un paio di anni avrebbe potuto tranquillamente campare senza neanche alzarsi al mattino. Così rimandò la cosa, e si dedicò a gesti casuali e a pratiche da tempo rimandate.

Buttò via i giornali vecchi. Prendeva treni per destinazioni vaghe.

5.

Quel che gli accadde, tuttavia, fu di ritrovarsi addosso, col passare dei giorni, una singolare forma di disagio che all’inizio fece fatica a comprendere e che solo dopo un po’ imparò a riconoscere: per quanto fosse seccante ammetterlo, gli mancava il gesto dello scrivere, e la quotidiana cura con cui mettere in ordine pensieri nella forma rettilinea di una frase. Non se l’aspettava, e questo lo fece riflettere. Era una sorta di piccolo fastidio che si ripresentava ogni giorno e prometteva di peggiorare. Così, a poco a poco, Jasper Gwyn iniziò a chiedersi se non era il caso di prendere in esame mestieri marginali in cui gli fosse possibile coltivare l’esercizio della scrittura senza che ciò implicasse, necessariamente, il ritorno immediato alle cinquantadue cose che si era ripromesso di non fare mai più.

Guide di viaggio, si disse. Ma si sarebbe dovuto viaggiare.

Pensò a quelli che scrivevano i manuali di istruzioni per gli elettrodomestici, e si chiese se esistesse ancora, da qualche parte del mondo, il mestiere di scrivere lettere per coloro che non erano in grado di farlo.

Traduttore, pensò. Ma da che lingua?

Alla fine, l’unica cosa chiara che gli venne in mente fu una parola: copista. Gli sarebbe piaciuto fare il copista. Non era un mestiere vero, se ne rendeva conto, ma c’era un riverbero in quella parola che lo convinceva, e gli faceva credere di cercare qualcosa di preciso. C’era una segretezza, nel gesto, e una pazienza di modi – un impasto di modestia e solennità. Non avrebbe voluto fare altro che quello: il copista. Era sicuro di poterlo fare benissimo.

Cercando di immaginare cosa mai, nel mondo reale, potesse corrispondere alla parola copista, Jasper Gwyn si fece scivolare addosso un sacco di giorni, uno dopo l’altro, in modo apparentemente indolore. Quasi non se ne accorse.

6.

Ogni tanto gli arrivavano contratti da firmare, si riferivano ai libri che aveva già scritto. Rinnovi, nuove traduzioni, adattamenti per il teatro. Li lasciava sul tavolo, e alla fine gli apparve chiaro che non li avrebbe firmati mai. Con un certo turbamento scoprì che non solo non voleva più scrivere libri ma, in qualche modo, non voleva neanche averli scritti. Cioè, gli era piaciuto farli, ma non desiderava affatto che sopravvivessero alla sua decisione di smettere, e anzi lo infastidiva che quelli andassero, con una forza propria, dove lui si era ripromesso di non metter piede mai più. Iniziò a buttare i contratti senza nemmeno aprirli. Ogni tanto Tom gli girava lettere di ammiratori che educatamente lo ringraziavano per quella pagina, o quella particolare storia. Perfino questo lo innervosiva, e non mancava mai di registrare come nessuno di loro facesse accenno al suo silenzio – non sembravano esserne informati. Un paio di volte si prese la briga di rispondere. Ringraziava, a sua volta, con parole semplici. Poi annotava che aveva smesso di scrivere, e salutava.

Notò che a quelle lettere nessuno rispose.

Sempre più spesso, tuttavia, gli ritornava quel bisogno di scrivere, e la mancanza di una quotidiana cura con cui mettere in ordine pensieri nella forma rettilinea di una frase. In maniera istintiva, allora, finì per compensare quella mancanza con una sua privata liturgia, che non gli sembrò priva di una qualche bellezza: prese a scrivere mentalmente, mentre camminava, o sdraiato nel letto, la luce spenta, aspettando il sonno. Sceglieva parole, costruiva frasi. Poteva succedergli di proseguire per giorni dietro a un’idea, arrivando a scriversi in testa intere pagine, che poi gli piaceva ripetere, talvolta a voce alta. Avrebbe potuto, allo stesso modo, farsi scrocchiare le dita, o ripetere degli esercizi ginnici, sempre gli stessi. Era una cosa fisica. Gli piaceva.

Una volta gli accadde di scrivere, in quel modo, un’intera partita a poker. Uno dei giocatori era un bambino.

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