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Alessandro Baricco: Mr Gwyn

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Alessandro Baricco Mr Gwyn

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Jasper Gwyn, scrittore dal discreto successo, decide da un giorno all’altro che non ha più intenzione di scrivere. O perlomeno di scrivere romanzi. Il gesto dello scrivere però gli manca, sente il bisogno di continuare a mettere in fila le parole come aveva fatto per la maggior parte della sua vita. Diventare “copista” gli appare dunque la soluzione ideale: non di cifre o parole, bensì di persone. Inizia così a fare ritratti per, come dice lui, “riportare a casa le persone”. Adibisce un ex garage a studio di posa, lo illumina con lampadine dalla luce “infantile” e ciò che ne scaturisce è un qualcosa che solo un personaggio complesso e surreale come Jasper Gwyin poteva concepire. Non mancheranno gli imprevisti e più di una volta il fragile sogno su cui tutto è costruito rischierà di infrangersi. Il finale non può che sorprendere.

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Capirlo lo fece sentire sperduto, e indifeso come solo sono i bambini, quelli intelligenti. Si sorprese a provare un istinto che non gli era consueto, qualcosa di simile alla necessità urgente di parlarne con qualcuno. Ci pensò un po’ ma l’unica persona che gli venne in mente fu la vecchia signora con il foulard impermeabile, là all’ambulatorio. Sarebbe stato molto più naturale parlarne con Tom, se ne rendeva conto, e per un attimo gli parve persino possibile riuscire a chiedere un aiuto, in qualche modo, a una delle donne che lo avevano amato, e che certamente sarebbe stata deliziata di ascoltarlo. Ma la verità è che l’unica persona con cui davvero avrebbe voluto parlare di quella faccenda era la vecchia signora dell’ambulatorio, lei il suo ombrello e il suo foulard impermeabile. Era sicuro che avrebbe capito. Finì che Jasper Gwyn si fece prescrivere altri esami – non era difficile, sulla base dei suoi sintomi – e tornò a frequentare la sala d’aspetto in cui quel giorno l’aveva incontrata.

Nelle ore che passò lì, ad aspettarla, per i tre giorni degli esami, si studiava per bene come le avrebbe spiegato tutta la faccenda, e benché lei continuasse a non arrivare, lui giunse a parlarle, come se fosse lì, e ad ascoltare le sue risposte. Nel farlo, comprese molto meglio quanto lo stava consumando, e una volta si immaginò distintamente la vecchia signora tirare fuori un libricino dalla borsa, un vecchio taccuino a cui si erano appiccicate un sacco di briciole, probabilmente biscotti – lo aveva aperto cercando una frase che si era segnata, e quando l’aveva trovata aveva avvicinato gli occhi alla pagina, proprio molto vicino, e l’aveva letta a voce alta.

– Le risoluzioni definitive si prendono sempre e soltanto per uno stato d’animo che non è destinato a durare.

– Chi l’ha detto?

– Marcel Proust. Non sbagliava mai, quello.

E richiuse il quadernetto.

Jasper Gwyn detestava Proust, per ragioni che non aveva mai avuto voglia di approfondire, ma quella frase se l’era messa da parte anni prima, sicuro che un giorno o l’altro gli sarebbe tornata utile. Pronunciata dalla voce della vecchia signora suonava come inattaccabile. Cosa devo dunque fare, si chiese.

– Il copista, che diamine, rispose la signora con il foulard impermeabile.

– Non sono sicuro di sapere cosa significa.

– Lo capirà. Quando sarà il caso, lo capirà.

– Me lo prometta.

– Glielo prometto.

Uscendo dall’elettrocardiogramma sotto sforzo, l’ultimo giorno, Jasper Gwyn passò dalla reception e chiese se avevano più visto una signora piuttosto anziana che veniva spesso lì, a riposarsi.

La signorina dietro al vetro lo squadrò un attimo prima di rispondere.

– E mancata.

Usò proprio quel verbo.

– Qualche mese fa, aggiunse.

Jasper Gwyn rimase a fissare la signorina, smarrito.

– La conosceva?, chiese lei.

– Sì, ci conoscevamo.

Si voltò istintivamente a guardare se c’era ancora l’ombrello per terra.

– Ma non mi aveva detto niente, disse.

La signorina non chiese nulla, probabilmente aveva intenzione di tornare al suo lavoro.

– Forse non lo sapeva, disse Jasper Gwyn.

Quando uscì gli venne spontaneo ripercorrere la strada che aveva fatto con la vecchia signora, quel giorno, sotto la pioggia: perché era tutto quello che conservava di lei.

Forse sbagliò una traversa, probabilmente non era stato molto attento quel giorno, così si ritrovò in una via che non riconosceva, e l’unica cosa di nuovo uguale era la pioggia, che aveva iniziato improvvisa, battente. Cercò un caffè dove rifugiarsi ma non ce n’erano. Alla fine, tentando di tornare all’ambulatorio, si trovò a passare davanti a una galleria d’arte. Era il genere di luogo in cui lui non metteva mai piede, ma quella volta la pioggia lo rendeva incline a cercare riparo, e dunque si sorprese a gettare un’occhiata oltre al vetro. C’era legno per terra e il locale sembrava grandissimo, e illuminato bene. Allora Jasper Gwyn guardò il quadro esposto in vetrina. Era un ritratto.

12.

Erano quadri grandi, tutti simili, come la ripetizione di un’unica ambizione, all’infinito. C’era sempre una persona, nuda, e poco altro intorno, una stanza vuota, un corridoio. Non erano persone belle, erano corpi ordinari. Semplicemente stavano – ma particolare era la forza con cui lo facevano, quasi fossero sedimenti geologici, frutto di metamorfosi millenarie. Jasper Gwyn pensò che erano pietre, ma morbide, e vive. Gli venne voglia di toccarle, era convinto che fossero tiepide.

A quel punto se ne sarebbe anche andato, bastava così, ma fuori continuava a diluviare e allora Jasper Gwyn, senza sapere che questo avrebbe segnato la sua vita, si mise a sfogliare un catalogo della mostra: ce n’erano tre, aperti, su un tavolo di legno chiaro – quei soliti libroni dal peso irragionevole. Jasper Gwyn constatò che i titoli dei quadri erano quelli un po’ idioti che ci si poteva aspettare (Uomo con mani sul grembo), e che accanto a ogni titolo era registrata la data di esecuzione. Notò che il pittore ci aveva lavorato per anni, più meno una ventina, senza che apparentemente fosse cambiato nulla nel suo modo di vedere le cose, o nella sua tecnica. Semplicemente aveva continuato a fare – come se fosse stato un unico gesto, solo molto lungo. Jasper Gwyn si chiese se era stata la stessa cosa per lui, nei dodici anni in cui aveva scritto, e mentre cercava una risposta capitò nell’appendice del libro, e lì c’erano delle fotografie fatte mentre il pittore lavorava, nel suo studio. Senza accorgersene si piegò un poco, per vedere meglio. Lo colpì una foto in cui il pittore se ne stava placidamente in poltrona, girato verso una finestra, a guardare fuori; a pochi metri da lui, una modella che Jasper Gwyn aveva appena visto in uno dei quadri esposti nella galleria se ne stava nuda sdraiata su un divano, in una posizione non molto dissimile da quella in cui era stata fermata sulla tela. Anche lei sembrava guardare nel vuoto.

Jasper Gwyn ci vide un tempo che non si aspettava, lo scorrere di un tempo. Come tutti, si immaginava che quel genere di cose andasse nel solito modo, con il pittore al cavalletto e il modello al suo posto, immobile, entrambi impegnati in un passo a due di cui conoscevano le regole – poteva immaginare le chiacchiere sciocche, intanto. Ma lì era diverso perché pittore e modello sembravano piuttosto aspettare, e si sarebbe detto aspettassero ognuno per conto proprio – e qualcosa che non era il quadro. Veniva da pensare che aspettassero di depositarsi sul fondo di un enorme bicchiere.

13.

Girò pagina, e le foto non erano molto dissimili. Cambiavano i modelli, ma la situazione era quasi sempre la stessa. Il pittore una volta si stava lavando le mani, un’altra camminava a piedi nudi guardando in basso. Non stava mai dipingendo. Una modella altissima e spigolosa, con grandi orecchie da bambina, sedeva sul bordo di un letto, tenendosi con una mano alla spalliera. Non c’era ragione di pensare che stessero parlando – che si fossero mai parlati.

Allora Jasper Gwyn prese il catalogo e cercò intorno un posto dove sedersi. C’erano solo due poltroncine blu, giusto davanti al tavolo dove una signora stava lavorando, in mezzo a carte e libri. Doveva essere la gallerista, e Jasper Gwyn le chiese se poteva sedersi lì, o se la cosa la disturbava.

– Prego, disse la signora.

Aveva occhiali da vista eccentrici e quando toccava le cose lo faceva con la cautela che hanno le donne con le unghie curate.

Jasper Gwyn si sedette, e benché la distanza dalla signora fosse di quelle che avevano un senso solo alla luce di un desiderio reciproco di scambiare qualche parola, si appoggiò il librone sulle ginocchia e tornò a guardare quelle foto, come se fosse stato solo, a casa sua.

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