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Alessandro Baricco: Mr Gwyn

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Alessandro Baricco Mr Gwyn

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Jasper Gwyn, scrittore dal discreto successo, decide da un giorno all’altro che non ha più intenzione di scrivere. O perlomeno di scrivere romanzi. Il gesto dello scrivere però gli manca, sente il bisogno di continuare a mettere in fila le parole come aveva fatto per la maggior parte della sua vita. Diventare “copista” gli appare dunque la soluzione ideale: non di cifre o parole, bensì di persone. Inizia così a fare ritratti per, come dice lui, “riportare a casa le persone”. Adibisce un ex garage a studio di posa, lo illumina con lampadine dalla luce “infantile” e ciò che ne scaturisce è un qualcosa che solo un personaggio complesso e surreale come Jasper Gwyin poteva concepire. Non mancheranno gli imprevisti e più di una volta il fragile sogno su cui tutto è costruito rischierà di infrangersi. Il finale non può che sorprendere.

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Lo studio del pittore vi appariva vuoto e sgangherato, non c’era traccia di consapevole pulizia, e c’era un’impressione di disordine irreale, poiché non vi era nulla che, all’occorrenza, si sarebbe potuto mettere in ordine. Analogamente, la nudità dei modelli non sembrava l’effetto di un’assenza di vestiti, ma una sorta di condizione originaria, preesistente a qualsiasi vergogna – o molto posteriore. In una delle foto si vedeva un signore sulla sessantina, con dei baffi curati, sul petto lunghi peli bianchi, che stava seduto su una sedia, intento a bere da una tazza, forse un tè, le gambe leggermente aperte, i piedi posati un po’ di taglio sul pavimento freddo. Lo si sarebbe detto assolutamente inadatto alla nudità, al punto di evitarla perfino nell’intimità domestica o amorosa, ma lì stava in effetti perfettamente nudo, il pene appoggiato di lato, piuttosto grande e circonciso, e pur essendo indubitabilmente grottesco era anche, al tempo stesso, così inevitabile che Jasper Gwyn fu sicuro per un istante di ignorare qualcosa che quell’uomo sapeva.

Allora alzò lo sguardo, cercò intorno, e subito trovò il ritratto del signore coi baffi, grande, appeso alla parete di fronte: era proprio lui, senza tazza di tè, ma sulla stessa sedia, nudo, i piedi posati un po’ di taglio sul pavimento freddo. Gli sembrò enorme, ma soprattutto gli apparve arrivato.

– Le piace?, chiese la gallerista.

Jasper Gwyn stava capendo qualcosa di particolare, che poi avrebbe cambiato il corso dei suoi giorni, e così non rispose subito. Tornò a guardare la foto, nel catalogo, poi di nuovo il quadro alla parete – era evidente che qualcosa era successo, tra la foto e il quadro, qualcosa come una peregrinazione. Jasper Gwyn pensò che doveva esserci voluto un sacco di tempo, un qualche esilio, e certo il dissolversi di molte resistenze. Non pensò a qualche trucco tecnico e nemmeno gli sembrò importante l’eventuale bravura del pittore, solo gli venne in mente che un fare paziente si era posto una meta, e alla fine quel che gli era riuscito di ottenere era ricondurre a casa quell’uomo coi baffi. Gli sembrò un gesto bellissimo.

14.

Si voltò verso la gallerista, le doveva una risposta.

– No, disse. Non mi piacciono mai i quadri.

– Ah, disse la gallerista.

Sorrideva, comprensiva, come se un bambino le avesse detto che da grande voleva fare il lavavetri.

– E cosa non le piace dei quadri?, chiese, paziente.

Di nuovo Jasper Gwyn non rispose. Stava pensando a quella storia del ricondurre a casa. Non gli era mai venuto in mente che un ritratto potesse riportare a casa qualcuno, anzi, gli era sempre sembrato proprio l’opposto, era evidente che i ritratti si facevano per esibire una falsa identità, e spacciarla come vera. Chi avrebbe mai pagato per farsi smascherare da un pittore e per appendere in casa quello che di se stesso si affannava a nascondere tutti i giorni?

Chi avrebbe mai pagato?, si ripeté lentamente.

Alzò lo sguardo sulla gallerista.

– Scusi, ce l’ha un foglietto e qualcosa per scrivere, per favore?

La gallerista gli avvicinò un blocco di carta e una matita.

Jasper Gwyn scrisse qualcosa, due righe. Poi stette a lungo a guardarle. Sembrava assorto in un pensiero così fragile che la gallerista rimase immobile, come quando non si vuole far volar via un passero dalla ringhiera. Diceva anche qualcosa a bassa voce, Jasper Gwyn, ma qualcosa di indecifrabile. Alla fine prese il foglietto, lo piegò in quattro e se lo mise in tasca. Rialzò lo sguardo sulla gallerista.

– Sono muti, disse.

– Prego?

– Non mi piacciono i quadri perché sono muti. Sono come persone che parlano muovendo le labbra, ma non si sente la voce. Bisogna immaginarla. Non mi piace fare quello sforzo lì.

Poi si alzò, andò a mettersi davanti al ritratto del signore con i baffi e a lungo, ancora, rimase assorto nei suoi pensieri – molto a lungo.

Tornò a casa senza badare alla pioggia che cadeva battente, e fredda. Ogni tanto diceva qualche frase a voce alta. Stava parlando con la signora dal foulard impermeabile.

15.

– Ritratti?

– Sì, perché?

Tom Bruce Shepperd studiò bene le parole.

– Jasper, tu non sai disegnare.

– Infatti. L’idea è quella di scriverli.

Un paio di settimane dopo quella mattina dalla gallerista, Jasper Gwyn aveva telefonato a Tom per dirgli che c’era una novità. Voleva anche dirgli che la smettesse di mandargli contratti da firmare che lui tanto non apriva nemmeno. Ma principalmente gli telefonò per quella storia della novità.

Aveva da dirgli che dopo aver cercato a lungo un nuovo lavoro da fare, adesso lo aveva trovato. Tom non la prese bene.

– Tu ce l’hai un lavoro. Scrivi libri.

– Ho smesso, Tom, come te lo devo ripetere?

– Non se n’è accorto nessuno.

– Cosa vuoi dire?

– Che puoi anche riiniziare domani.

– Scusa, ma se anche io decidessi per assurdo di riprendere a scrivere, con che faccia lo farei, secondo te, dopo quello che ho scritto sul “Guardian”?

– La lista? Geniale provocazione. Operazione avanguardistica. E poi chi vuoi che se la ricordi?

Tom non era solo il suo agente, era l’uomo che l’aveva scoperto, dodici anni prima. Andavano allo stesso pub, allora, e una volta erano rimasti fino alla chiusura a parlare di cosa avrebbe scritto Hemingway se non si fosse sparato con un fucile da caccia all’età di sessantadue anni.

– Un beato cazzo di niente, aveva sostenuto Tom. Ma invece Jasper Gwyn era di tutt’altra opinione e alla fine Tom aveva intuito, nonostante le quattro birre scure, che quell’uomo capiva di letteratura, e gli aveva chiesto che mestiere facesse. Jasper Gwyn glielo aveva detto e Tom se lo era fatto ripetere, perché proprio non ci credeva.

– Avrei detto professore, o giornalista, cose così.

– No, niente del genere.

– Be’, è un peccato.

– Perché?

– Non ne ho la più pallida idea, sono ubriaco. Lei sa cosa faccio io?

– No.

– Agente letterario.

Aveva tirato fuori un biglietto da visita e l’aveva porto a Jasper Gwyn.

– Se per caso un giorno le succedesse di scrivere qualcosa non mi faccia il torto di dimenticarsi di me. Sa, succede a tutti, prima o poi.

– Cosa?

– Di scrivere qualcosa.

Aveva passato un istante a riflettere.

– Anche di dimenticarsi di me, naturalmente.

Poi non ne avevano più riparlato, e quando si trovavano al pub volentieri se ne stavano insieme, spesso a parlare di libri, e di scrittori. Ma un giorno Tom aveva aperto una busta gialla, enorme, che gli era arrivata con la posta del mattino, e dentro c’era il romanzo di Jasper Gwyn. Aveva aperto a caso, c aveva preso a leggere da un punto qualunque. C’era una scuola che andava a fuoco. Era tutto iniziato da lì.

Adesso però tutto aveva l’aria di voler finire e Tom Bruce

Shepperd neanche aveva capito bene perché. La lista delle cinquantadue cose, va bene, ma non poteva essere solo quello. Tutti i veri scrittori odiano quel che c’è attorno al loro mestiere, ma nessuno smette per quello. Di solito basta un po’ di alcol in più, o una moglie giovane con una certa propensione a spendere. Malauguratamente Jasper Gwyn beveva un bicchiere di whisky al giorno, sempre alla stessa ora, come se dovesse oliare un orologio. Inoltre non credeva nel matrimonio. Così sembrava non esserci nulla da fare. Adesso si era anche aggiunta quella storia dei ritratti.

– E una cosa molto riservata, Tom, mi devi giurare che non ne parlerai con nessuno.

– Puoi contarci, tanto chi vuoi che mi creda.

Quando Tom si era sposato con Lottie, una ragazza ungherese di ventitré anni più giovane, Jasper Gwyn aveva fatto da testimone, e durante la cena a un certo punto era salito in piedi su un tavolo e aveva recitato un sonetto di Shakespeare. Solo che non era di Shakespeare ma suo, un’imitazione perfetta. Gli ultimi due versi dicevano: se devo dimenticarti mi ricorderò di farlo, ma non chiedermi poi di dimenticare che me ne sono ricordato. Allora Tom lo aveva stretto tra le braccia, non tanto per il sonetto, di cui aveva capito poco, ma perché sapeva cosa doveva essergli costato salire su un tavolo e attirare l’attenzione della gente. L’aveva proprio stretto tra le braccia. Anche per questo, adesso, la storia dei ritratti non riusciva a prenderla bene.

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