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Alessandro Baricco: Mr Gwyn

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Alessandro Baricco Mr Gwyn

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Jasper Gwyn, scrittore dal discreto successo, decide da un giorno all’altro che non ha più intenzione di scrivere. O perlomeno di scrivere romanzi. Il gesto dello scrivere però gli manca, sente il bisogno di continuare a mettere in fila le parole come aveva fatto per la maggior parte della sua vita. Diventare “copista” gli appare dunque la soluzione ideale: non di cifre o parole, bensì di persone. Inizia così a fare ritratti per, come dice lui, “riportare a casa le persone”. Adibisce un ex garage a studio di posa, lo illumina con lampadine dalla luce “infantile” e ciò che ne scaturisce è un qualcosa che solo un personaggio complesso e surreale come Jasper Gwyin poteva concepire. Non mancheranno gli imprevisti e più di una volta il fragile sogno su cui tutto è costruito rischierà di infrangersi. Il finale non può che sorprendere.

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Alla donna con l’ombrello la cosa sembrò normalissima. Alla fine si ritrovarono soli, nella sala d’aspetto, e allora la donna disse che era proprio ora di andare. Jasper Gwyn le chiese se non doveva fare un esame, o qualcosa del genere. Ma lei disse che veniva lì perché era un posto caldo, ed era esattamente a metà tra casa sua e il supermercato. Inoltre le piaceva guardare la faccia della gente che doveva fare Tesarne del sangue, a digiuno. Sembra gente a cui hanno rubato qualcosa, disse. Già, confermò Jasper Gwyn, convinto.

La accompagnò a casa, tenendole l’ombrello aperto, con lei che non voleva mollare il trolley, e per strada continuarono a parlare fino a quando la donna non gli chiese cosa stava scrivendo adesso, e lui disse Niente. La donna camminò un po’ in silenzio, poi disse Peccato. Lo disse con un tono di rimpianto così sincero che Jasper Gwyn ne fu come addolorato.

– Finite le idee?, chiese la donna.

– No, quello no.

– E allora?

– Mi piacerebbe fare un altro mestiere.

– Tipo?

Jasper Gwyn si fermò.

– Credo che mi piacerebbe fare il copista.

La donna ci pensò un po’. Poi riprese a camminare.

– Sì, posso capire, disse.

– Davvero?

– Sì. E un bel mestiere, il copista.

– E quello che ho pensato.

– E un mestiere pulito, lei disse.

Si salutarono sui gradini che portavano alla casa di lei, e a nessuno dei due venne in mente di scambiare un numero di telefono o di accennare a una prossima volta. Solo, a un certo punto, lei disse che le spiaceva sapere che non avrebbe più letto un suo libro. Aggiunse che non tutti sono capaci di entrare nella testa della gente come sapeva fare lui, e che questo suo talento sarebbe stato un peccato chiuderlo in garage e lucidarlo una volta all’anno, come uno spiderino d’epoca.

Disse proprio così, come uno spiderino d’epoca. Poi sembrò aver finito, ma in realtà aveva da parte ancora qualcosa.

– Fare il copista c’entra col copiare qualcosa, no?, chiese.

– Probabilmente.

– Ecco. Ma non atti notarili o numeri, la prego.

– Cercherò di evitare.

– Veda se trova qualcosa tipo copiare la gente.

– Sì.

– Come sono fatti.

– Sì.

– Le verrà bene.

– Sì.

9.

Era forse passato un anno, un anno e mezzo dall’articolo sul “Guardian”, quando Jasper Gwyn prese a stare male, di tanto in tanto, in una forma che si trovò a descrivere come un improvviso svanire. Gli accadeva di vedersi da fuori – così raccontava – oppure di perdere ogni percezione precisa che non fosse il percepire se stesso. A volte poteva essere impressionante. Un giorno dovette entrare in una cabina telefonica e con fatica fare il numero di Tom. Gli disse, balbettando, che non sapeva più dov’era.

– Nessuna paura, mando Rebecca a prenderti. Dove sei?

– Il problema è quello, Tom.

Finì che la ragazza grassa si fece tutto il quartiere in macchina finché lo trovò. Nel frattempo Jasper Gwyn se n’era rimasto nella cabina, stringendo spasmodicamente la cornetta e cercando di non morire. Per distrarsi parlava al telefono – gli venne da improvvisare una telefonata di protesta per l’interruzione dell’acquedotto, nessuno lo aveva avvertito e questo gli aveva portato enormi danni economici e morali.

Continuava a ripetere Devo aspettare che piova per farmi lo shampoo?

Si sentì subito meglio, appena salito sulla macchina della ragazza grassa.

Mentre si scusava, non riusciva a smettere di fissare quelle mani grassocce che stringevano, ma il verbo non era esatto, il volante sportivo. Non c’era coerenza, pensò, e quella doveva essere l’esperienza che in ogni istante del giorno quella ragazza faceva del proprio corpo – che non c’era coerenza tra lui e tutto il resto.

Ma lei sorrise, di quel suo bel sorriso, e disse che anzi, era onorata di potergli essere d’aiuto. E comunque, aggiunse, anche a lei era capitato, aveva avuto un periodo in cui le capitava spesso di stare male in quel modo.

– Tutt’a un tratto pensava di morire?

– Sì.

– E com’è guarita?, chiese Jasper Gwyn, che a quel punto avrebbe mendicato una cura da chiunque.

La ragazza tornò a sorridere, poi rimase un po’ in silenzio, guardando la strada.

– No, va be’, disse alla fine, queste sono cose mie.

– Certo, disse Jasper Gwyn.

Si arrotolavano. Probabilmente il verbo giusto era quello. Si arrotolavano sul volante sportivo.

10.

Nei giorni che; seguirono, Jasper Gwyn si sforzò di mantenere la calma e, nel tentativo di trovare un linimento alle crisi che si facevano sempre più frequenti, si affidò a un esercizio che si ricordava di aver visto in un film. Consisteva nel vivere lentamente, concentrandosi su ogni singolo gesto. Come regola potrà sembrare piuttosto generica, ma Jasper Gwyn aveva un modo di osservarla che la rendeva sorprendentemente reale. Così si infilava le scarpe guardandole, prima, valutandone la bella leggerezza e apprezzando il tratto cedevole del cuoio. Nell’allacciarle evitava di lasciarsi andare a un gesto automatico e osservava nel dettaglio lo splendido andare delle dita, secondo un fare rotondo di cui ammirava la sicurezza. Poi si alzava, e ai primi passi non dimenticava di registrare la salda presa della calzatura sul collo del piede. Allo stesso modo, si concentrava sui rumori che di solito si danno per scontati, tornando a udire lo scatto di una serratura, la raucedine dello scotch, o il minimo sferragliare delle cerniere. Molto tempo gli andava a registrare i colori, anche quando la cosa non era di alcuna utilità, e in particolare era attento ad ammirare le tavolozze casuali che le cose generavano nel loro disporsi – che fosse l’interno di un cassetto, o la spianata di un parcheggio. Spesso contava gli oggetti che incontrava – gradini, lampioni, urla – e con le dita controllava le superfici, riscoprendo l’infinito compreso tra il ruvido e il liscio. Si fermava a guardare le ombre, per terra. Sentiva ogni moneta, tra le dita.

Tutto ciò gli dava un’andatura sontuosa, nel muoversi quotidiano, come di attore, o di animale africano. Nella sua lentezza elegante sembrava agli altri di riconoscere il tempo naturale delle cose, e nella precisione dei suoi gesti risaliva in superficie una signoria sugli oggetti che i più avevano dimenticato. Jasper Gwyn neanche se ne accorgeva, ma molto chiaro gli era invece come quell’andare minuzioso gli restituisse una qualche giustezza – quel baricentro che evidentemente gli era venuto a mancare.

11.

Durò un paio di mesi. Poi, stanco, tornò al vivere consueto, ma nel farlo lo ripigliò all’istante la nota evanescenza, e senza possibilità di difesa lo assalì un senso di vuoto incurabile. D’altronde quella cura ossessiva nell’accosto al mondo – quel modo di allacciarsi le scarpe – non era poi qualcosa di molto diverso dallo scrivere le cose invece che viverle – dall’indugiare su aggettivi e avverbi – e così Jasper Gwyn dovette ammettere con se stesso che l’abbandono dei libri aveva generato un vuoto a cui non sapeva ovviare se non allestendo liturgie sostitutive imperfette e provvisorie come il mettere insieme frasi nella sua mente o allacciarsi le scarpe con una lentezza da idiota. Ci aveva messo anni ad accettare che il mestiere di scrivere gli era diventato impossibile e adesso si trovava costretto a registrare come senza quel mestiere non gli fosse affatto facile tirare avanti. Così finì per capire che si trovava in una situazione nota a molti umani, ma non per questo meno dolorosa: ciò che, solo, li fa sentire vivi, è qualcosa che però, lentamente, è destinato ad ammazzarli. I figli per i genitori, il successo per gli artisti, le montagne troppo alte per gli alpinisti. Scrivere libri, per Jasper Gwyn.

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