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Alessandro Baricco: Mr Gwyn

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Alessandro Baricco Mr Gwyn

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Jasper Gwyn, scrittore dal discreto successo, decide da un giorno all’altro che non ha più intenzione di scrivere. O perlomeno di scrivere romanzi. Il gesto dello scrivere però gli manca, sente il bisogno di continuare a mettere in fila le parole come aveva fatto per la maggior parte della sua vita. Diventare “copista” gli appare dunque la soluzione ideale: non di cifre o parole, bensì di persone. Inizia così a fare ritratti per, come dice lui, “riportare a casa le persone”. Adibisce un ex garage a studio di posa, lo illumina con lampadine dalla luce “infantile” e ciò che ne scaturisce è un qualcosa che solo un personaggio complesso e surreale come Jasper Gwyin poteva concepire. Non mancheranno gli imprevisti e più di una volta il fragile sogno su cui tutto è costruito rischierà di infrangersi. Il finale non può che sorprendere.

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Nient’altro.

Ma si può essere fatti così?, pensò Rebecca.

Prese il libro, se lo rigirò un po’ tra le mani, poi lo tirò contro il muro – un gesto che qualche anno dopo avrebbe ricordato.

Le venne in mente di cercare sul pacco e trovò soltanto un qualunque timbro postale londinese. Dove se ne fosse andato Jasper Gwyn non le era concesso evidentemente saperlo. Lontano – questo lo sentiva con assoluta certezza. Era tutto finito, e neppure con quella solennità a cui sempre avrebbe diritto il tramonto delle cose.

Si alzò, mise nell’agenda la lettera di Jasper Gwyn e decise che, per l’ultima volta, avrebbe fatto quello che le chiedeva. Non per dovere – per una forma di malinconica esattezza. Prese con sé, prima di uscire, i ritratti. Pensò che non leggerli sarebbe stato uno dei piaceri della sua vita. Arrivata a casa, li mise in fondo a un armadio, sotto a dei maglioni vecchi, e questo fu l’ultimo gesto che le dettò un qualche rimpianto – sapere che nessuno avrebbe mai saputo.

Le ci volle una decina di giorni per sistemare tutto. A chi le chiedeva spiegazioni, dava risposte vaghe. Quando John Septimus Hill le disse di porgere a Jasper Gwyn i suoi più rispettosi saluti, lei chiarì che non avrebbe avuto modo di farlo.

– Ah no?

– No, mi spiace.

– Non prevede di incontrarlo entro un ragionevole lasso di tempo?

– Non prevedo di incontrarlo mai più, disse Rebecca. John Septimus Hill si permise un sorriso vagamente scettico che Rebecca giudicò fuori luogo.

58.

Negli anni che seguirono, nessuno ebbe più notizia, apparentemente, di Jasper Gwyn. Le indiscrezioni su quella sua curiosa mania dei ritratti scivolarono presto via dai giornali e il suo nome prese a comparire sempre più raramente nelle cronache letterarie. Accadeva che venisse citato in passeggere mappature della letteratura inglese recente, e un paio di volte gli si dedicò qualche riga a proposito di altri libri che sembravano riprenderne certi stilemi. Uno dei suoi romanzi, Sorelle, finì nella lista dei Cento libri da leggere prima di morire redatta da una autorevole rivista del settore. Il suo editore inglese e un paio di quelli stranieri provarono a mettersi in contatto con lui, ma in passato tutto era transitato da Tom, e adesso, chiusa la sua Agenzia, non sembrava esserci modo di parlare con quell’uomo. Era piuttosto diffusa la sensazione che prima o poi si sarebbe fatto vivo, e probabilmente con un nuovo libro. Pochi pensavano che, davvero, potesse aver smesso di scrivere.

Quanto a Rebecca, nel giro di quattro anni si ricostruì una vita, scegliendo di ricominciare da capo. Aveva trovato un lavoro che non c’entrava con i libri, aveva mollato il ragazzo stronzo e se n’era andata a vivere appena fuori Londra. Un giorno aveva conosciuto un uomo sposato che aveva un bellissimo modo di incasinare qualsiasi cosa toccasse. Si chiamava Robert. Finirono per amarsi molto, e l’uomo le chiese un giorno se per caso poteva lasciare la sua famiglia e provare a farne un’altra con lei. A Rebecca parve un’ottima idea. All’età di trentadue anni diventò madre di una bambina a cui diedero il nome di Emma. Si mise a lavorare meno e a ingrassare ulteriormente, e nessuna delle due cose le procurò alcuna forma di rimorso. Molto di rado le accadeva di ripensare a Jasper Gwyn, e sempre senza particolare emozione. Erano ricordi leggeri come cartoline spedite da una vita precedente.

Tuttavia un giorno, mentre spingeva il passeggino con Emma tra i corridoi di una enorme libreria londinese, capitò su un’offerta speciale di tascabili, e in cima alla colonna vide un libro di Klarisa Rode. Lì per lì non fece nemmeno molto caso al titolo, semplicemente annotò il fatto che non l’aveva mai letto. Solo alla cassa si accorse che era, in effetti, il libro che quattro anni prima Jasper Gwyn le aveva regalato, il giorno in cui era finito tutto. Si ricordò cosa ne aveva fatto. Sorrise. Pagò.

Iniziò a leggerlo in metropolitana, visto che Emma si era addormentata nel passeggino, e dovevano fare un po’ di fermate. Se lo stava proprio godendo, dimentica di tutta la gente attorno, quando di colpo, a pagina sedici, rimase di sasso.

Andò avanti a leggere un po’, incredula. Poi alzò lo sguardo e ad alta voce, disse:

– Ma guarda ‘sto figlio di puttana!

In effetti quello che stava leggendo, nel libro della Rode, era il proprio ritratto, parola per parola, esattamente il ritratto che Jasper Gwyn le aveva fatto, anni prima.

Si voltò verso il vicino e in modo surreale si sentì in dovere di spiegare, sempre ad alta voce:

– L’ha copiato, l’ha copiato dalla Rode, cazzo!

Il vicino non parve cogliere l’importanza della cosa, ma intanto qualcosa si era rimesso in moto nella testa di Rebecca – come una forma di tardivo buon senso – e lei riabbassò gli occhi sul libro.

Un attimo, pensò.

Controllò la data di edizione e capì c’era qualcosa che non quadrava. A lei il ritratto Jasper Gwyn l’aveva fatto almeno un anno prima. Come fa uno a copiare un libro che non è ancora uscito?

Si voltò di nuovo verso il vicino, ma era evidente che quello non avrebbe potuto esserle di grande aiuto.

Forse Jasper Gwyn lo aveva letto prima che fosse pubblicato, pensò. Era un’ipotesi ragionevole. Si ricordava vagamente che quella dei manoscritti di Klarisa Rode era una faccenda intricata. Niente di più probabile che Jasper Gwyn fosse riuscito, in qualche modo, a vederli prima che finissero all’editore. Quadrava. Ma proprio in quel momento, da lontano, le ritornò una frase che le aveva detto Tom, tanto tempo prima. Era stato quel giorno in cui le aveva spiegato che razza di tipo fosse Jasper Gwyn. Le aveva raccontato quella faccenda del figlio mai riconosciuto. Ma anche un’altra cosa le aveva detto: che c’erano dei libri, almeno due, scritti da Jasper Gwyn, che circolavano per il mondo, ma non con il suo nome.

Cazzo, pensò.

Ecco perché non finiscono più di uscire inediti di quella lì. Li scrive lui.

Era una follia, ma poteva anche essere la verità.

Avrebbe cambiato un bel po’ di cose, si disse. Istintivamente ripensò a quel giorno in cui tutto era finito, e si vide mentre tirava contro il muro quello stupido libro. Possibile che non fosse uno stupido libro ma uno squisito regalo? Faceva fatica a rimettere i pezzi insieme. Le passò per un istante nella mente l’idea che qualcosa di importante le era stato restituito, qualcosa che le spettava da un sacco di tempo. Stava cercando di capire cosa, esattamente, quando si accorse che la metropolitana era ferma alla stazione in cui doveva scendere.

– Merda!

Si alzò e scese di corsa.

Ci mise un attimo ad accorgersi che aveva dimenticato qualcosa. -Emma!

Si voltò mentre le porte si richiudevano. Iniziò a battere il palmo delle mani sui vetri e a urlare qualcosa ma il treno se ne stava già lentamente scivolando via.

Si era fermata della gente e la stava guardando.

– Mia figlia!, gridò Rebecca. C’è mia figlia là sopra! Non fu semplicissimo, poi, recuperarla.

59.

Non le sembrò necessario, più tardi, raccontare tutta la storia a Robert, ma quando fu l’ora di andare a dormire Rebecca gli disse che doveva assolutamente finire di leggere una cosa per lavoro e lo pregò di andare pure a dormire, lei rimaneva di là, avrebbe fatto presto.

– Se si sveglia Emma?, chiese lui.

– Come al solito. La soffochi col cuscino.

– D’accordo.

Era un uomo dal carattere adorabile.

Sdraiata sul sofà, Rebecca prese il libro della Rode, lo riiniziò da capo e lo lesse fino alla fine. Erano le due di notte quando arrivò all’ultima pagina. La storia era ambientata in una cittadina danese dell’Ottocento, e parlava di un padre e dei suoi cinque figli. La trovò bellissima. Poco dopo l’inizio c’era in effetti, come incastonato, il ritratto che Jasper Gwyn le aveva fatto, ma invano Rebecca cercò, nel resto del libro, qualcosa che ne recasse delle tracce significative. Né le parve di trovare una sola pagina che potesse essere stata scritta apposta per lei. Solo quella specie di quadro, appoggiato in un angolo, con indubbia maestria.

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