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Alessandro Baricco: Mr Gwyn

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Alessandro Baricco Mr Gwyn

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Jasper Gwyn, scrittore dal discreto successo, decide da un giorno all’altro che non ha più intenzione di scrivere. O perlomeno di scrivere romanzi. Il gesto dello scrivere però gli manca, sente il bisogno di continuare a mettere in fila le parole come aveva fatto per la maggior parte della sua vita. Diventare “copista” gli appare dunque la soluzione ideale: non di cifre o parole, bensì di persone. Inizia così a fare ritratti per, come dice lui, “riportare a casa le persone”. Adibisce un ex garage a studio di posa, lo illumina con lampadine dalla luce “infantile” e ciò che ne scaturisce è un qualcosa che solo un personaggio complesso e surreale come Jasper Gwyin poteva concepire. Non mancheranno gli imprevisti e più di una volta il fragile sogno su cui tutto è costruito rischierà di infrangersi. Il finale non può che sorprendere.

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– Con violenza. Ma poi d’improvviso con dolcezza. Gli piace toccarsi. Non parla mai. Non chiude mai gli occhi. Diventa bellissimo quando viene.

Lo disse senza togliere lo sguardo dagli occhi di Rebecca.

– Vuoi leggerlo insieme a me, il ritratto?, chiese. Rebecca fece cenno di no con la testa.

– Non credo di voler sapere nient’altro di te, ragazzina.

– Non sai niente, di me.

– Ecco, perfetto.

La ragazzina per un po’ sembrò distratta da qualcosa che aveva visto sul tavolo. Poi rialzò lo sguardo su Rebecca.

– Lo abbiamo fatto per due giorni, senza quasi dormire, disse. Lì, nello studio. Poi lui se n’è andato e non è più tornato. Un vigliacco.

– Se non hai altro veleno da sputare, il nostro colloquio sarebbe finito.

– Sì. Solo una cosa ancora.

– Sbrigati.

– Me lo faresti un favore?

Rebecca la guardò sconcertata. La ragazzina fece ancora quel movimento con cui scopriva per un attimo il volto.

– Quando lo vedi digli che mi spiace per quella cosa dei giornali, non pensavo sarebbe successo tutto quel casino.

– Se volevi fargli del male ci sei riuscita.

– No, non volevo quello. Era un’altra cosa.

– Cosa?

– Non so… volevo toccarlo, ma non credo che tu possa capire.

Rebecca pensò con fastidio che poteva capire molto bene. Pensò anche la condanna di quelli, molti, che non sono capaci di toccare senza far male, e d’istinto cercò con gli occhi quelle mani e le piccole ferite. Sentì l’ombra di una lontana pietà e seppe immediatamente cosa aveva piegato Jasper Gwyn, in quello studio, con quella ragazzina.

– La chiave, disse.

La ragazzina cercò nella borsa e posò la chiave sul tavolo. Rimase un attimo a guardarla.

– Non lo voglio il ritratto, disse. Buttalo.

Se ne andò lasciando aperta la porta – camminava un po’ di sbieco, come se dovesse infilarsi in uno spazio stretto e lo facesse per fuggire da ogni cosa che era.

57.

Rebecca ci mise un po’ a rimettere in moto i pensieri. Lasciò perdere le incombenze che avrebbe dovuto assolvere, annullò tutti gli appuntamenti, lasciò sul tavolo, senza aprirli, i giornali che aveva comprato. Le dava fastidio vedere che le tremavano le mani – era perfino difficile capire se fosse rabbia o una qualche forma di spavento. Squillò il telefono e lei non rispose. Prese la sua roba e se ne uscì.

Sulla strada di casa, si sedette in un posto tranquillo, sui gradini di una chiesa, ai bordi di un piccolo giardino, e si costrinse a ricordare le parole di quella ragazzina. Cercava di capire cosa, di volta in volta, avevano mandato in pezzi. Tante cose, e alcune le sapeva delicate ma anche ferme, come le semplici illusioni non sono. Stranamente, prima che a se stessa pensò a Jasper Gwyn, come quelli che, rialzatisi da una caduta, controllano che non si siano rotti gli occhiali o l’orologio – le cose più fragili. Era arduo capire quanto quella ragazzina l’avesse ferito. Sicuramente aveva infranto una misura che fino a quel momento Jasper Gwyn aveva scelto come norma imprescindibile del suo curioso lavoro. Ma era anche possibile che tanta cura nel porre confini e restrizioni nascondesse in lui l’intimo desiderio di arrivare al di là di ogni regola, anche solo una volta, e a qualsiasi prezzo – come per arrivare fino in fondo a un suo certo cammino. Dunque era difficile dire se quella ragazzina era stata per lui un colpo mortale o l’approdo a cui da sempre tutti i suoi ritratti avevano mirato. Chissà. Certo quei nove giorni senza mettere piede nello studio facevano pensare a un uomo spaventato più che a un uomo arrivato – e il suo rimanere nascosto, poi, con calma ma determinazione. Sono gli animali feriti che si muovono così. Pensò allo studio, alle diciotto Caterina de’ Medici, alla musica di David Barber. Che peccato, si disse. Che immenso peccato se tutto dovesse finire qui.

Tornò verso casa, camminando lentamente, e solo allora le venne da pensare a sé, e a controllare le sue, di ferite. Per quanto la disgustasse ammetterlo, quella ragazzina le aveva insegnato qualcosa che la umiliava, e che aveva a che fare con il coraggio, o la spudoratezza, chissà. Cercò di ricordare i momenti in cui anche lei era stata davvero vicina a Jasper Gwyn, scandalosamente vicina, e finì per chiedersi cosa aveva sbagliato in quegli istanti, o cosa non aveva capito. Tornò con la memoria nel buio dello studio, quell’ultima notte, e si ricordò il nulla che era rimasto tra loro, incredula di non averlo saputo attraversare. Ma ancor più ripensò a quella mattina della morte di Tom, alla sua corsa da Jasper Gwyn e a tutto quello che era seguito. Si ricordava lo spavento di tutt’e due, e quella voglia di starsene chiusi lì dentro, insieme, più forte di ogni altra cosa. Si ricordava i propri gesti in cucina, i piedi nudi, il telefono che squillava senza che loro smettessero di parlare, a bassa voce. L’alcol bevuto, i vecchi dischi, le copertine dei libri, la confusione in bagno. E com’era stato facile sdraiarsi accanto a lui, e addormentarsi. Poi l’alba difficile, e lo sguardo atterrito di Jasper Gwyn. Lei che capiva e se ne andava.

Quant’era stato più preciso il gesto netto di quella ragazzina.

Che odiosa lezione.

Si guardò e si chiese se tutto non si poteva spiegare semplicemente con quel suo corpo, inadatto e sbagliato. Ma non c’era una risposta. Solo tristezze che da tempo non voleva più affrontare.

A casa, poi, si vide bella, allo specchio – e viva.

Fece quindi, per giorni, l’unico gesto che le sembrò appropriato – attendere. Seguì freddamente il moltiplicarsi sui giornali di servizi che riprendevano il curioso caso di Jasper Gwyn, e si limitò ad archiviarli, in ordine cronologico. Rispondeva al telefono, annotando diligentemente tutte le richieste e assicurando che presto sarebbe stata in grado di essere più utile. Non aveva paura, sapeva che doveva solo aspettare. Lo fece per undici giorni. Poi, un mattino, le arrivò in ufficio un grosso pacco, accompagnato da una lettera e da un libro.

Nel pacco c’erano tutti i ritratti, ognuno nella sua cartellina. Nella lettera Jasper Gwyn chiariva che erano le copie che aveva fatto per se stesso: la pregava di conservarle in un posto sicuro, e di non renderle pubbliche in nessun modo. Aggiungeva una minuziosa lista di cose da fare: restituire lo studio a John Septimus Hill, disfarsi dei mobili e degli arredi, liberare l’ufficio, annullare la mail con cui avevano lavorato, rendersi irreperibile ai giornalisti che eventualmente avessero provato a contattarla. Specificò che si era occupato personalmente di saldare tutti i conti in sospeso, e rassicurava Rebecca del fatto che al più presto le sarebbero giunte le sue spettanze, comprensive di una significativa liquidazione. Era sicuro che non avrebbe incontrato problemi.

Di cuore la ringraziava, e ancora una volta gli premeva dire che non avrebbe potuto desiderare una collaboratrice più precisa, discreta e piacevole. Si rendeva conto che un commiato più caldo sarebbe stato auspicabile sotto ogni aspetto, ma doveva ammettere, pur con rammarico, di non riuscire a fare di meglio.

Il resto della lettera era scritto a mano. Diceva così.

Forse dovrei spiegarle che la distanza da quella ragazzina era un teorema irrisolvibile, ma non saprei farlo senza rendermi ridicolo, o senza ferirla, forse. Della prima cosa non mi importa, ma la seconda mi creerebbe infinito disappunto. Voglia semplicemente credere che non si poteva fare altro.

Non si preoccupi per me, non sono infastidito per quel che è successo e ho in mente con precisione cosa devo fare adesso.

Le auguro ogni felicità, se la merita.

Per sempre grato, suo

Jasper Gwyn, copista

C’era poi una nota, dopo la firma, poche righe. Diceva che le allegava l’ultimo libro uscito dai cassetti di Klarisa Rode, e appena pubblicato. Si ricordava bene come quel giorno, al parco, quando le aveva portato il suo ritratto, lei avesse proprio un romanzo della Rode, in mano, e ne avesse parlato con grande entusiasmo. Così gli era venuto in mente che poteva essere un bel modo di chiudere il cerchio regalarle in questa circostanza quel libro: si augurava che leggerlo l’avrebbe deliziata.

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