Alessandro Baricco - Mr Gwyn

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Jasper Gwyn, scrittore dal discreto successo, decide da un giorno all’altro che non ha più intenzione di scrivere. O perlomeno di scrivere romanzi. Il gesto dello scrivere però gli manca, sente il bisogno di continuare a mettere in fila le parole come aveva fatto per la maggior parte della sua vita. Diventare “copista” gli appare dunque la soluzione ideale: non di cifre o parole, bensì di persone. Inizia così a fare ritratti per, come dice lui, “riportare a casa le persone”. Adibisce un ex garage a studio di posa, lo illumina con lampadine dalla luce “infantile” e ciò che ne scaturisce è un qualcosa che solo un personaggio complesso e surreale come Jasper Gwyin poteva concepire. Non mancheranno gli imprevisti e più di una volta il fragile sogno su cui tutto è costruito rischierà di infrangersi. Il finale non può che sorprendere.

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L’ultima lampadina si spense che lei camminava, lenta, cantando sottovoce. Nel buio Jasper Gwyn la intravide continuare lenta, sfiorando le pareti. Lui aspettò che gli fosse vicina e le disse Grazie, Mrs Harper, è stato tutto impeccabile. Lei si fermò e con voce bambina gli chiese se poteva fare una richiesta. Provi, le rispose Jasper Gwyn. Vorrei che mi aiutasse a rivestirmi, lei disse. Con dolcezza, aggiunse. Jasper Gwyn lo fece. E la prima volta che qualcuno lo fa per me, lei disse.

Mrs Harper ebbe il suo ritratto in cambio di diciottomila sterline e di una dichiarazione in cui si impegnava al più assoluto riserbo, pena pesantissime sanzioni pecuniarie. Il marito glielo consegnò la sera del suo compleanno, la tavola imbandita solo per loro due, a lume di candela. Aveva confezionato la cartellina con carta d’oro e un nastro blu. Lei aprì il regalo e seduta a tavola, senza dir nulla, lesse difilato le quattro pagine che Jasper Gwyn aveva scritto per lei. Quando finì, alzò lo sguardo verso il marito e per un attimo pensò che nulla avrebbe potuto impedire loro di morire insieme, dopo aver insieme vissuto per sempre. Il giorno dopo Rebecca ricevette una mail ini cui i signori Harper ringraziavano per la splendida opportunità e pregavano di comunicare al signor Gwyn che avrebbero conservato gelosamente il ritratto senza mai mostrarlo a nessuno, perché era divenuta la cosa più cara che era dato loro di possedere. Sinceramente, Ann e Godfried Harper.

48.

Il quarto ritratto Jasper Gwyn lo fece a un ragazzo di trentadue anni che dopo aver studiato economia con splendidi risultati si era inchiodato a cinque esami dalla fine e adesso faceva il pittore, con qualche successo. I genitori – entrambi esponenti della upper middle class londinese – non avevano apprezzato. Fino a qualche anno prima era stato un buon nuotatore, e adesso aveva un fisico incerto, come riflesso in un cucchiaio. Lo muoveva lentamente eppure senza sicurezza, così l’impressione era che vivesse in un posto stracolmo di oggetti fragilissimi che solo a lui era dato di percepire. Anche la luce dei suoi quadri – paesaggi industriali – sembrava esser qualcosa di cui solo lui fosse al corrente. Da un po’ di tempo aveva pensato di tentare dei ritratti, soprattutto di bambini, e quando era vicino a capire cosa davvero lo interessasse in quella possibilità si era imbattuto, per caso, nell’annuncio di Jasper Gwyn. Gli era parso un segno. In realtà quello che si aspettava era un incontro dove gli sarebbe stato possibile, a lungo e nella quiete di uno studio, conversare sul senso del ritrarre dei viventi, così nei primi giorni lo sconcertò il silenzio che Jasper Gwyn, con fermezza, pretendeva da lui e riservava a se stesso. Aveva appena iniziato ad abituarsi, e ad apprezzare quella forzatura al punto da prenderla in considerazione come regola da adottare, quando accadde una cosa che gli sembrò normale, ma che in effetti non lo era. Mancava forse un’ora alle otto, e qualcuno bussò alla porta. Vide che Jasper Gwyn non faceva cenno di essersene accorto. Ma da fuori ripresero a bussare, e continuarono a farlo con seccante insistenza. Allora Jasper Gwyn si alzò – era seduto per terra, appoggiato alla parete, in un angolo che sembrava essere la sua tana – e con un’espressione di infinita incredulità sul volto andò alla porta e la aprì.

C’era quel ragazzo ventenne, e aveva un cellulare in mano.

– E per lei, disse.

Jasper Gwyn era a torso nudo, con i suoi soliti pantaloni da meccanico. Non ci poteva credere. Prese il cellulare.

– Tom, sei impazzito?

Ma dall’altra parte non rispose la voce di Tom. Si sentiva solo una persona piangere, di un pianto molto piccolo.

– Pronto!

Sempre quel pianto.

– Tom, che cazzo di scherzo è?, la vuoi piantare? Allora da quel pianto piccolo uscì la voce di Lottie per dire che Tom era stato male. Era in ospedale.

– In ospedale?

Lottie disse che non andava affatto bene, poi ricominciò a piangere, e alla fine disse se per favore lui poteva correre subito lì, glielo chiedeva per favore. Poi gli disse il nome dell’ospedale e l’indirizzo, perché era una donna pratica, lo era sempre stata.

– Aspetta, disse Jasper Gwyn.

Rientrò nello studio e andò a prendere il suo bloc-notes.

– Mi puoi ripetere?, chiese.

Lottie ripeté il nome e l’indirizzo, e Jasper Gwyn li scrisse su uno di quei foglietti color crema. Mentre vedeva l’inchiostro blu rimanere sulla carta ad annotare l’orrore di un nome da ospedale e la prosa di un arido indirizzo si ricordò di come qualsiasi incantesimo sia fragile oltre ogni dire, e velocissima la vita nel suo rapinare.

Disse al ragazzo che bisognava interrompere. D’improvviso lo vide sconfinatamente nudo – e in modo grottescamente inutile.

49.

Poiché la natura umana è sorprendentemente meschina, sul taxi Jasper Gwyn pensò soprattutto a quanta gente avrebbe dovuto incrociare all’ospedale – colleghi, editor, giornalisti, c’era da aspettarsi un bel po’ di incontri faticosissimi. Immaginò le volte in cui gli avrebbero chiesto cosa stava facendo. Orribile, pensò. Ma quando salì al reparto, solo Lottie gli venne incontro, nel corridoio deserto.

– Non vuole nessuno, non vuole farsi vedere così, gli disse. Ha chiesto solo di te, mille volte, meno male che sei venuto, chiedeva solo di te.

Jasper Gwyn non rispose perché la stava ancora guardando, sconcertato. Portava tacchi a spillo e un tailleur corto mozzafiato.

– Lo so, disse lei. E Tom che me l’ha chiesto. Dice che lo tiene di buon umore.

Jasper Gwyn annuì. Anche la scollatura era di quelle che tengono di buon umore.

– Si incazza se piango, aggiunse Lottie. Ti va di restare un po’ qui? Muoio dalla voglia di andare da qualche parte a singhiozzare come mi pare.

Nella stanza, Tom Bruce Shepperd giaceva tra cannule e macchinari, come rimpicciolito sotto lenzuola e coperte dal colore inesistente – color ospedale. Jasper Gwyn avvicinò una sedia al letto e si sedette. Tom aprì gli occhi. Che schifo, disse, ma piano. Aveva le labbra secche, e nessuna luce nello sguardo. Ma poi si girò un po’, e riconobbe Jasper Gwyn, e allora fu diverso.

Piano, e lentamente, si misero a parlare. Tom aveva da raccontare cosa gli era successo. Il cuore, da qualche parte. Una roba complicata. Tentano un intervento tra due giorni, disse. Ma tentare non è un granché come verbo, annotò.

– Ne uscirai, disse Jasper Gwyn. Come l’altra volta, ne uscirai alla grande.

– Forse.

– Come sarebbe a dire forse?

– Credo che preferirei cambiare argomento.

– D’accordo.

– Vedi se ti riesce di dire qualcosa che non mi deprima.

– Il tailleur di Lottie era da sballo.

– Il solito maiale.

– Io? Tu sei il maiale, sei tu che la fai vestire così.

Tom sorrise – per la prima volta. Poi richiuse gli occhi. Si vedeva che parlare lo affaticava. Jasper Gwyn gli passò una mano sui capelli, e per un po’ rimasero lì, insieme e basta.

Ma poi, senza aprire gli occhi, Tom disse a Jasper Gwyn che c’era una ragione particolare per cui l’aveva fatto chiamare anche se per nulla al mondo avrebbe voluto farsi vedere da lui in quello stato vomitevole. Riprese fiato, e poi disse che era per quella storia del ritratto.

– Non mi va di andarmene senza sapere cosa cazzo ti sei inventato, disse.

Jasper Gwyn spostò la sedia un po’ più vicino alla testa di Tom.

– Tu non te ne vai da nessuna parte, disse.

– Dicevo per dire.

– Prova solo a ripeterlo e vendo tutta la mia backlist a Andrew Wylie.

– Non ti prenderebbe mai.

– Questo lo dici tu.

– D’accordo, ma adesso stammi a sentire.

Ogni tanto si fermava a riprendere fiato. O il capo di un filo che gli scappava, bastardo.

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