Tacque per un po’, come se cercasse di ricordarselo. Ma poi disse un’altra cosa.
– Non significa niente, lo so, ma spostavi la mano di dieci centimetri e potevi prendere delle patatine al formaggio.
Esitò un attimo.
– In amore mentiamo tutti, mormorò scuotendo la testa. Poi la frase dopo la urlò.
– Ben fatto, Mr Gwyn!
Disse che si mise a urlarlo proprio lì dall’indiano, con la gente che si voltava. L’aveva ripetuto tre o quattro volte. Ben fatto, Mr Gwyn! L’avevano presa per matta.
– Ma è una cosa che mi capitava sovente, disse. Essere presa per matta, chiarì.
Allora Jasper Gwyn disse che non c’era nessuno come lei, e chiese se le andava di festeggiare insieme, quella sera.
– Prego?
– Che ne dice di venire a cena con me?
– Non dica sciocchezze, io sono morta, i ristoranti mi odiano.
– Almeno un bicchiere.
– Che razza di idea.
– Lo faccia per me.
– Adesso è proprio ora che vada.
Lo disse con voce dolce, ma ferma. Si alzò, prese la borsa e l’ombrello, che era sempre marcio, e andò verso la porta. Trascinava un po’ i piedi, in quel suo modo che si poteva riconoscere da lontano. Quando si fermò era perché aveva ancora una cosa da dire.
– Non faccia il maleducato, porti quei sette fogli a Rebecca, e glieli faccia leggere.
– Lei crede che sia necessario?
– Certo.
– Cosa dirà?
– Sono io, dirà.
Jasper Gwyn si chiese se l’avrebbe mai più rivista, e decise che sì, da qualche parte, ma fra molti anni, in un’altra solitudine.
Stava in una nuova laundry che dei pakistani avevano aperto dietro casa sua, quando gli si avvicinò un ragazzo in giacca e cravatta, non avrà avuto più di vent’anni.
– Lei è Jasper Gwyn?
– No.
– Sì che lo è, disse il ragazzo, e gli porse un cellulare. E per lei, disse.
Jasper Gwyn lo prese, rassegnato. Ma anche un po’ contento.
– Ehi, Tom.
– Sai quanti giorni è che non ti telefono, fratellone?
– Dimmelo tu.
– Quarantuno.
– Un record.
– Puoi dirlo. Com’è la lavanderia?
– Appena aperta, sai com’è.
– No, non lo so, a me le cose le lava Lottie.
Avevano una scommessa aperta, e così dopo aver sparato un po’ di boiate ci arrivarono. Era quella questione del ritratto.
– Rebecca non scuce niente, quindi ti tocca raccontare, Jasper. Voglio anche i dettagli.
– Qui in lavanderia?
– Perché no?
In effetti non c’era nessuna ragione per non parlarne lì. A parte forse quel ragazzo in giacca e cravatta che rimaneva impettito tra i piedi. Jasper Gwyn gli diede un’occhiata e quello capì. Uscì dalla lavanderia.
– L’ho fatto. E venuto bene.
– Il ritratto?
– Sì.
– E venuto bene in che senso?
Jasper Gwyn non era sicuro di riuscire a spiegarsi. Gli venne da alzarsi, forse camminando avanti e indietro ci sarebbe riuscito.
– Non sapevo esattamente cosa potesse voler dire scrivere un ritratto e adesso lo so. C’è un modo di farlo che ha un senso. Poi magari ti può venire meglio o peggio, ma è una cosa che esiste. Non sta solo nella mia testa.
– Che diavolo di trucco ti sei inventato, si può sapere?
– Niente, una cosa molto semplice. Ma in effetti non ti viene in mente fino a quando non ti viene in mente.
– Chiarissimo.
– Dai, poi un giorno te lo spiego meglio.
– Be’, dimmi almeno qualcosa.
– Cosa vuoi sapere?
– Quando restituiamo a John Septimus Hill il suo bello studio e firmiamo qualche bel contratto.
– Mai, credo.
Tom stette per un po’ zitto, e questo non era un bel segno.
– Ho trovato quello che cercavo, Tom, è una bella notizia.
– Non per il tuo agente!
– Io non scriverò mai più libri, Tom, e tu non sei il mio agente, sei un mio amico, e mi sa anche che sei runico, attualmente.
– Devo scoppiare a piangere?
Si sentiva che era scocciato, ma non lo disse con cattiveria, era solo imbarazzo o una cosa del genere. Devo scoppiare a piangere?
– Dai, Tom…
Tom stava pensando che questa volta non la raddrizzava più.
– E adesso?, chiese.
– Adesso cosa?
– Cosa succede adesso, Jasper?
Ci fu un lungo silenzio. Poi Jasper Gwyn disse qualcosa che però Tom non capì bene.
– Parla nel telefono, Jasper!
– non lo so con precisione.
– Ah, ecco.
– Non lo so con precisione.
Ma era vero fino a un certo punto. Qualche idea ce l’aveva, e anche abbastanza dettagliata. Mancava magari qualche passaggio, ma un’ipotesi su come procedere l’aveva ben stampata in mente.
– Immagino che inizierò a fare ritratti, semplificò.
– Non ci posso credere.
– Troverò dei clienti e gli farò dei ritratti.
Tom Bruce Shepperd appoggiò la cornetta sul tavolo e partì in retromarcia sulla sua sedia a rotelle. Uscì dal suo ufficio, infilò con abilità sorprendente il corridoio e lo risalì fino a quando non si trovò davanti alla porta, aperta, della stanza dove lavorava Rebecca. Quel che aveva da dire lo gridò senza tanti complimenti.
– Si può sapere cosa cazzo c’ha in testa quell’uomo e dove vuole arrivare e soprattutto perché, perché si deve inventare tutte quelle stronzate pur di non fare quel che…
Si accorse che Rebecca non c’era.
– Ma vaffanculo.
Girò su se stesso e tornò in ufficio. Riprese la cornetta in mano.
– Jasper?
– Sono qua.
Tom cercò una voce tranquilla e la trovò.
– Io non ti mollo, disse.
– Lo so.
– C’è qualcosa che posso fare per te?
– Sicuro, ma adesso non mi viene in mente.
– Pensaci con calma.
– D’accordo.
– Sai dove trovarmi.
– Anche tu.
– In lavanderia.
– Tipo.
Stettero un attimo in silenzio.
– Jasper, secondo te quelli che fanno ritratti hanno un agente?
– Non ne ho la più pallida idea.
– Mi informo.
Ma poi, per giorni e settimane, non tornarono a parlarne perché sapevano che quella storia dei ritratti li allontanava, e così finivano per girarci intorno senza mai avvicinarsi al cuore della faccenda, nel timore che a farlo sarebbe stato inevitabile allontanarsi ancora di più, prestando il fianco a un dolore che non volevano in sorte.
Un paio di giorni dopo quella telefonata con Tom, Jasper Gwyn si incontrò con Rebecca – il tempo era mite, gli era venuto in mente di darle appuntamento a Regent’s Park, in quel viale in cui tutto, in un certo senso, era cominciato. Aveva portato con sé la cartellina con i sette fogli stampati. Aspettò seduto su una panchina con cui aveva una certa consuetudine.
Non si erano più visti da quell’ultima lampadina, nel buio. Rebecca arrivò e si trattava di capire da che punto ricominciare.
– Scusi il ritardo. C’era uno che si è ammazzato nella metropolitana.
– Sul serio?
– No, ero in ritardo e basta. Mi scusi.
Si era messa delle calze a rete. Si intravedevano appena, sotto la gonna lunga. Una faccenda di caviglie e basta. Però intanto erano a rete. Jasper Gwyn notò anche due orecchini piuttosto spettacolari. Non portava roba del genere quando consegnava cellulari nelle lavanderie.
Fece qualche blando complimento, ma senza trovare le parole giuste. Ne venne fuori qualcosa di orrendamente banale. Stava pensando di cambiare argomento quando notò una cosa che lo lasciò sconcertato e che lì per lì gli fece dimenticare le calze a rete e tutto quanto.
– Le piace Klarisa Rode?, chiese, indicando il libro che Rebecca teneva in mano.
– Da matti. E Tom che me l’ha fatta scoprire. Doveva essere una donna straordinaria. Lo sa che nessuno dei suoi libri è mai stato pubblicato mentre era in vita? Lei non voleva.
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