Guardò Jasper Gwyn e disse che così andava molto meglio.
– Così è molto più esatto, disse.
Si alzò e tornò a sedersi sulla sedia. Era stupido, ma il cuore le batteva come se avesse fatto una corsa – proprio così se l’era immaginata, di notte, quando le era venuta in mente.
Jasper Gwyn riprese ad andare in giro con lo sguardo, tornando a fare piccoli gesti nell’aria. Non sembrava essere cambiato nulla, per lui. Come d’improvviso è diventato un animale, pensò tuttavia Rebecca. Gli guardava il petto magro, le braccia secche, e tornò indietro a quando Jasper Gwyn per lei era uno scrittore lontano, una fotografia, qualche intervista – sere intere a leggerlo, rapita. Si ricordò di quando Tom, la prima volta, l’aveva mandata nella lavanderia, con quel cellulare. A lei era parsa una follia, e allora Tom si era fermato a spiegarle un po’ che tipo era, Jasper Gwyn. Le aveva raccontato che nel suo ultimo libro c’era una dedica. Forse se la ricordava: a P., addio. Le spiegò che p stava per Paul, era un bambino. Aveva quattro anni, e Jasper Gwyn era suo padre. I Però mai si erano visti, per la semplice ragione che Jasper Gwyn aveva deciso che non sarebbe stato padre mai, e per nessun motivo. Era in grado di sostenerlo con grande dolcezza e determinazione. E un’altra cosa le raccontò. C’erano almeno altri due libri, di Jasper Gwyn, che circolavano nel mondo: ma non col suo nome, e certo non sarebbe stato lì a dirle quali erano. Poi Tom le aveva puntato una biro blu alla testa e aveva fatto un rumore con la bocca, come un soffio.
– E un cancellatore di memoria, le aveva spiegato. Tu non sai niente.
Lei aveva preso il cellulare ed era andata in lavanderia. Se lo ricordava benissimo, quell’uomo, seduto in mezzo alle lavatrici, elegante, le mani dimenticate sulle ginocchia. Le era sembrato una sorta di divinità, perché era ancora piccola, ed era la prima volta. A un certo punto lui aveva provato a dirle qualcosa a proposito di Tom e di un frigorifero, ma lei faceva fatica a concentrarsi, perché lui parlava senza guardare negli occhi, e con una voce che a lei sembrava di conoscere da sempre.
Adesso quell’uomo era lì, il petto magro, le braccia secche, i piedi nudi messi uno sull’altro – un elegante relitto animale, principesco. Rebecca pensò quanta strada può accadere di fare, e come misteriose siano le rotte dell’esperienza se possono portarti seduta su una sedia, nuda, a farti guardare da un uomo che da lontano ha trascinato la sua follia fino a lì, riordinandola fino a farne un rifugio per lui e per te. Le venne in mente che ogni volta che aveva letto una pagina di quell’uomo, già era stata invitata in quel rifugio, e che in fondo non era successo nulla, da allora, assolutamente nulla – forse un tardivo allinearsi di corpi, sempre in ritardo.
Da quel giorno Jasper Gwyn si mise a lavorare vestito solo di un paio di vecchi pantaloni da meccanico. Gli dava una certa aria da pittore pazzo, e questo non guastava.
Passarono dei giorni, e un pomeriggio una lampadina si spense. Il vecchietto di Camden Town aveva lavorato bene. Si spense senza esitazioni e silenziosa come un ricordo.
Rebecca si voltò a guardarla – era seduta sul letto, fu come un’impercettibile oscillazione dello spazio. Sentì una fitta di angoscia, le fu impossibile evitarlo. Jasper Gwyn le aveva spiegato come sarebbe finito tutto quello, e adesso sapeva cosa sarebbe successo, ma non a che velocità, o con quale lentezza. Da tempo aveva smesso di contare i giorni, e sempre si era rifiutata di chiedersi come sarebbe stato dopo. Aveva timore di chiederselo.
Jasper Gwyn si alzò, camminò fin sotto la lampadina spenta e si mise ad osservarla, con un interesse che si sarebbe detto scientifico. Non sembrava inquieto. Sembrava chiedersi perché proprio quella. Rebecca sorrise. Pensò che se lui non aveva paura, non avrebbe avuto paura neanche lei. Si sedette sul letto e da lì vide Jasper Gwyn aggirarsi per lo studio, la testa china, per la prima volta interessato a quei foglietti che aveva attaccato al pavimento, e che mai era tornato a guardare. Ne raccolse uno, poi un altro. Toglieva la puntina, prendeva il foglietto, se lo metteva in tasca e poi andava a posare la puntina su un davanzale, sempre lo stesso. La cosa assorbiva tutta la sua attenzione e Rebecca si rese conto che avrebbe potuto anche andarsene e lui nemmeno se ne sarebbe accorto. Quando si spense la seconda lampadina, entrambi si girarono a guardarla, per un attimo. Sembrava quando si aspettano le stelle cadenti, nelle notti d’estate. A un certo punto Jasper Gwyn parve ricordarsi di qualcosa, e allora andò ad abbassare il volume del loop di David Barber. Con la mano sulla manopola, teneva fisso lo sguardo sulle lampadine, e cercava una simmetria millimetrica.
Quel giorno Rebecca tornò a casa e disse al ragazzo stronzo se per favore poteva andarsene, solo per qualche giorno – disse che le sarebbe piaciuto stare da sola, per un po’.
– E dove vado?, chiese il ragazzo stronzo.
– Da qualche parte, disse lei.
Il giorno dopo non andò nemmeno a lavorare da Tom.
Le era venuto in mente che stava finendo qualcosa, e lo voleva fare bene, voleva fare solo quello.
Un’idea non molto diversa doveva averla avuta anche Jasper Gwyn, perché quando arrivò nello studio, il giorno dopo, Rebecca vide i resti di una cena, in un angolo, per terra, e capì che Jasper Gwyn non era tornato a casa, la notte – né l’avrebbe più fatto prima che tutto quello finisse. Pensò com’era esatto, quell’uomo.
Nelle chiazze di buio ogni tanto lei passava, camminando, come a provare una sparizione. Jasper Gwyn allora la guardava, aspettandosi qualcosa dall’ombra. Poi tornava nei suoi pensieri. Sembrava lieto, tranquillo, tra i resti delle sue cene, il viso non rasato, i capelli scompigliati dalle notti per terra. Rebecca lo guardava e pensava che era irrimediabilmente delizioso. Chissà se aveva trovato quel che cercava. Non era possibile leggergli in faccia una qualche soddisfazione, né l’ombra di uno sgomento. Solo l’orma di una concentrazione febbrile, ma pacata. Qualche foglietto ancora raccolto per terra – poi li appallottolava e se li infilava in tasca. Lo sguardo alle lampadine, nell’istante in cui abbandonavano.
Ma a un certo punto andò a sedersi accanto a lei, sul letto, e, come se fosse la cosa più naturale al mondo, si mise a parlarle.
– Vede Rebecca, una cosa mi sembra di averla capita. Lei rimase ad aspettare.
– Pensavo che non parlare fosse assolutamente necessario, io ho terrore delle chiacchiere, non potevo certo pensare di chiacchierare con lei. E poi temevo che si finisse con una cosa tipo psicanalisi, o confessione. Una prospettiva agghiacciante, non trova? Rebecca sorrise.
– Però, vede, mi sbagliavo, aggiunse Jasper Gwyn. Rimase un po’ in silenzio.
– La verità è che se davvero voglio fare questo mestiere devo accettare di parlare, anche una volta sola, due al massimo, al momento giusto, ma devo essere capace di farlo.
Alzò lo sguardo su Rebecca.
– Parlare appena, disse.
Lei fece cenno di sì col capo. Stava completamente nuda seduta di fianco a un uomo in pantaloni da meccanico, e la cosa le sembrava del tutto naturale. L’unica cosa che si domandava era come poteva essere utile a quell’uomo.
– Ad esempio, prima che sia troppo tardi mi piacerebbe chiederle una cosa, disse Jasper Gwyn.
– Lo faccia.
Jasper Gwyn gliela chiese. Lei ci pensò, poi rispose. Era una cosa sul piangere e sul ridere.
Andarono un po’ avanti a parlarne.
Poi lui le chiese una cosa che riguardava i bambini. I figli, precisò.
E un’altra sui paesaggi.
Parlavano a voce bassa, senza fretta.
Finché lui assentì col capo e si alzò.
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