Tornò verso il letto. Si sdraiò sulla schiena, la nuca appoggiata sul cuscino. Teneva gli occhi aperti.
Alle otto si rivestì, e per qualche minuto rimase seduta, con l’impermeabile addosso, su una sedia, a respirare. Poi si alzò e se ne andò – giusto un piccolo cenno di saluto.
Jasper Gwyn per un po’ non si mosse. Quando si alzò, lo fece per andare a sdraiarsi sul letto. Prese a fissare il soffitto. Aveva appoggiato il capo nell’incavo del cuscino lasciato da Rebecca.
– Com’è andata?, chiese la signora con il foulard impermeabile.
– Non so.
– È brava, la ragazza.
– Non sono sicuro che tornerà.
– Perché mai?
– E tutto così assurdo.
– E allora?
– Non sono sicuro neanch’io, di tornare. Ma il giorno dopo tornò.
Gli venne in mente di portarsi un taccuino. Lo scelse non troppo piccolo, i fogli color crema. Con una matita, allora, ogni tanto scriveva parole, poi strappava il foglietto e lo attaccava con una puntina al pavimento di legno, scegliendo ogni volta un posto diverso, come uno che disponesse trappole per topi.
Scrisse così una frase, a un certo punto, e poi vagò un po’ per la stanza fino a scegliere un punto, per terra, non lontano da dove Rebecca stava in quel momento, in piedi, appoggiata a una parete. Si chinò e lo attaccò con la puntina al legno. Poi alzò lo sguardo su Rebecca. Non le era mai stato così vicino, da quando avevano iniziato. Rebecca lo stava fissando negli occhi. Lo faceva in modo mansueto, senza intenzioni. Rimasero a fissarsi così. Respiravano lenti, nel fiume di suoni di David Barber. Poi Jasper Gwyn abbassò lo sguardo.
Prima di andarsene, Rebecca attraversò la stanza e andò proprio dove Jasper Gwyn si era rincantucciato, seduto per terra, in un angolo. Gli si sedette accanto, lasciando le gambe allungate e nascondendo le mani tra le cosce, i dorsi che si toccavano. Non si voltò a guardarlo, solo rimase lì, la testa appoggiata alla parete. Jasper Gwyn sentì allora la vicinanza tiepida, e il profumo. Lo fece fino a quando Rebecca si alzò, si rivestì, e se ne andò.
Rimasto solo, Jasper Gwyn appuntò qualcosa sui suoi foglietti e andò ad attaccarli per terra, in punti che cercò con minuziosa attenzione.
Intorno a quei foglietti, Rebecca prese l’abitudine di camminare, nei giorni che seguirono, disegnando percorsi che la portavano da uno all’altro, come se cercasse il profilo di una qualche figura. Non si fermava mai a leggerli, solo gli girava attorno. Lentamente Jasper Gwyn la vide cambiare nei modi, diversa nel mostrarsi, più inaspettata nei gesti. Era forse il settimo, o l’ottavo giorno, quando la vide d’un tratto composta in una bellezza sorprendente, senza incrinature. Durò un attimo, come se lei sapesse benissimo dove si era spinta, e non avesse intenzione di restarci. Così spostò il peso sull’altro fianco, alzando una mano a sistemarsi i capelli, e tornando imperfetta.
Quello stesso giorno, a un certo punto, si mise a mormorare, a bassa voce, sdraiata sul letto. Jasper Gwyn non poteva sentire le parole, e nemmeno voleva. Ma lei continuò per minuti e minuti, ogni tanto sorrideva, o si fermava in silenzio, poi riprendeva. Sembrava stesse raccontando qualcosa a qualcuno. Mentre parlava faceva scivolare avanti e indietro il palmo delle mani sulle gambe distese. Le fermava quando taceva. Senza neanche accorgersene, Jasper Gwyn finì per avvicinarsi al letto, come uno che stesse inseguendo un animaletto e fosse finito a pochi passi dalla sua tana. Lei non reagì, solo abbassò il tono di voce, e continuò a parlare, ma muovendo appena le labbra, in un sussurro che a tratti cessava, e poi riprendeva.
Il giorno dopo, mentre Jasper Gwyn la stava guardando, le si riempirono gli occhi di lacrime, ma fu un momento, un transito di pensieri, o di ricordi in fuga.
Se Jasper Gwyn avesse dovuto dire quando iniziò a pensare che c’era una soluzione, probabilmente avrebbe citato un giorno in cui lei si era infilata, a un certo punto, la camicia, e non era un modo di tornare indietro su qualche sua decisione, ma di andare avanti oltre quello che aveva deciso. La tenne un po’ addosso, sbottonata davanti – giocava con i polsini. Allora qualcosa in lei si spostò, in un modo che si sarebbe potuto definire laterale, e Jasper Gwyn sentì, per la prima volta, che Rebecca gli stava lasciando intravedere il proprio ritratto.
Quella notte uscì a camminare per le strade e lo fece per ore, senza sentire fatica. Notò che c’erano lavanderie che non chiudevano mai, e registrò la cosa con una certa soddisfazione.
Non la vedeva più neanche grassa, o bella, e qualsiasi cosa avesse pensato e rilevato di lei, prima di entrare in quello studio, si era dissolta completamente, o non era mai esistita. Come non gli sembrava che passasse del tempo, là dentro, ma piuttosto si srotolasse un unico istante, sempre identico a sé. Cominciava a riconoscere, talvolta, dei passaggi del loop di David Barber, e quel loro ripassare periodico, sempre uguali, dava a qualsiasi trascorrere una fissità poetica di fronte alla quale l’accadere del mondo, fuori da lì, perdeva ogni incanto. Che tutto prendesse forma in un’unica luce immobile dal tono infantile era cosa di infinita delizia. Gli odori dello studio, la polvere che si stava posando sulle cose, lo sporco a cui nessuno opponeva resistenza – tutto dava l’impressione di un animale in letargo, che respirava lento, scomparso ai più. Alla signora con il foulard impermeabile, che voleva sapere, Jasper Gwyn arrivò a spiegare che c’era qualcosa di ipnotico, in tutto quello, affine agli effetti di una droga. Non starei a esagerare, disse la vecchia signora. E gli ricordò che era poi solo un lavoro, il suo lavoro da copista. Pensi piuttosto a combinare qualcosa di buono, aggiunse, se no mi torna dritto dritto a incontrare le scolaresche.
– Quanti giorni mancano?, chiese Jasper Gwyn.
– Una ventina, mi sa.
– Ho tempo.
– Ha già scritto qualcosa?
– Appunti. Niente che abbia senso leggere.
– Io fossi in lei non sarei così tranquilla.
– Non sono tranquillo. Ho solo detto che ho tempo. Pensavo di entrare nel panico fra qualche giorno.
– Sempre rimandare, voi giovani.
Spesso arrivava in ritardo, quando Rebecca già era nello studio. Poteva essere una decina di minuti, ma anche un’ora. Lo faceva deliberatamente. Le piaceva trovarla già scomparsa a se stessa nel fiume sonoro di David Barber e in quella luce – quando lui aveva ancora addosso invece la crudezza e il ritmo del mondo fuori. Allora entrava facendo meno rumore possibile e sulla soglia si fermava, cercandola con lo sguardo come in una grande voliera: nell’istante in cui la trovava, quella era l’immagine che più distinta gli sarebbe rimasta nella memoria. Lei nel tempo si era abituata, e non muoveva, all’aprirsi delle porte, ma solo stava del suo stare. Da giorni avevano ormai tralasciato qualsiasi inutile liturgia di saluto, nel trovarsi e nel lasciarsi.
Un giorno entrò e Rebecca dormiva. Sdraiata sul letto, leggermente girata su un fianco. Respirava lenta. Jasper Gwyn avvicinò silenziosamente una poltrona ai piedi del letto. Si sedette e rimase a lungo a guardarla. Come non aveva ancora mai fatto, da vicino seguiva i dettagli, le pieghe del corpo, le sfumature di bianco della pelle, le piccole cose. Non gli importava di fissarle nella memoria, non sarebbero servite al suo ritratto, ma attraverso quel guardare acquistava una vicinanza clandestina che invece lo aiutava, e lo portava lontano. Lasciò che il tempo passasse senza mettere fretta alle idee che sentiva arrivare, rade e disordinate come gente da un confine. A un certo punto Rebecca aprì gli occhi, lo vide. Istintivamente richiuse le gambe. Ma poi lentamente le riaprì, ritrovando la posizione che aveva abbandonato – lo fissò per qualche istante, e alla fine richiuse gli occhi.
Читать дальше